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SUL "PERCHÉ" E SUL "COME" 
FARE UNA RIVISTA

di
Giambattista Vicari    


Giambattista Vicari
nello studio romano in via della Croce 67

(Foto dell'Archivio Vicari)

                            L'irrisione continua impedirà al sistema di riassorbirci.

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 IL CAFFÈ aspira a mantenere vivo, nel corpo del lavoro letterario, il ricambio degli schemi d'associazione estetica; e a reagire all'usura non soltanto delle formule, ma anche e sopratutto dei materiali che ogni epoca insistentemente predilige.

 PUR SENTENDO viva la pressione degli oggetti, siamo convinti che l'unico modo autorizzato per arricchire il patrimonio ideale è, per gli scrittori, esclusivamente quello di rinnovare gli strumenti espressivi.

 CI SI PROPONE pertanto un'opera di integrazione, e non di polemica nei confronti dei modi consueti, reagendo là dove appare evidente la ripetizione di temi e di modi, se non addirittura la cristallizzazione delle leggi e del repertorio grammaticali.

 NON C'È NESSUNA ripugnanza per la "eresia didascalica"; ma c'è, sì, ribellione all'uso delle idee in modo non letterario, alla tendenza a soddisfarsi di materiale che non sia divenuto anche linguisticamente plausibile - di un materiale che troppi aspirano a consumare al di fuori di ogni sua riduzione estetica.

 LA VIA SCELTA è quindi quella di uno sperimentalismo conscio della sua continua provvisorietà, della sua funzione relativa. Non possiamo prescindere dall'inserimento dei risultati meglio riusciti nel loro tempo storico; né aspiriamo ad una integrale separazione dalle forme più nobili raggiunte, dal clima di cultura che ci avvolge. Ma vorremmo che la tradizione più viva e la presenza di certe direttrici culturali non inducessero mai alla pigrizia, allo schematismo, all'automatismo strutturale e di pensiero. La ricerca sperimentale tende al rovesciamento delle convenzioni, al capovolgimento della norma passiva.

 VEDIAMO CHIARAMENTE i limiti di uno sperimentalismo che miri soltanto a rimescolare gli stessi elementi non vivificati dall'esperienza, le formule ormai inerti: ma siamo disposti a concedere l'onore preliminare perfino all'artificio, a condizione che esso serva a una riorganizzazione letteraria delle materie. E sia chiaro che l'artificio deve restare un momento iniziale: come l'avvio d'officina. Lo respingiamo come momento casuale e come limite. Lo assumiamo soltanto in quanto sia valido a far scattare quel "tertium quid" - il subdolo valore estetico! - che deve sempre essere intermedio tra la conoscenza e la azione, tra la percezione e la verità ultima, non ridotto ad azione e a verità assunte al loro estremo grado, rese evidenti fuori dell'interpretazione estetica.

 VORREMMO PERTANTO che la ricerca dello scrittore - tesa a riempire le zone vuote del costume e del gusto a lui contemporanei - partisse da una tensione che gli consenta di collaudare ciò che sia artisticamente rigido e sordo. E qui potremmo ripetere che, pur senza negare le verità obbiettive e statiche, pensiamo ad una verità in movimento, che la letteratura deve sempre includere come una profezia, in cui la storia stessa, e la scienza, e la filosofia, e la religione medesime si accrescono, diventano dinamiche, e calate, e ridotte entro quell'autonoma sfera che è l'esperienza estetica.

 ASPIRIAMO, È CHIARO, ad un mondo che si trasformi sempre in linguaggio, e sollecitiamo un continuo tentativo di aggiornamento della parola che si atteggi in simboli continuamente imprevisti. È naturale che accettiamo, così, perfino il rischio della deformazione, della stilizzazione, perfino dell'arbitrio concettuale e formale.

 LE "FINALITÀ SENZA SCOPO" non esistono, e non sono tali se almeno possano essere mediatrici, possano levitare continuamente le capacità dinamiche dello scrittore, e giovino ad anticipare altri valori più definitivi.

 PERCIÒ DIFFIDIAMO sopratutto del moralismo diretto, del patetico esplicito, del lirismo, che automatizzano l'ispirazione; e preferiamo genericamente indicare l'ironia, la comicità, la parodia, il grottesco, la ricerca dell'eccentrico (cioè le deformazioni: e non le più facili) come i più fecondi stimoli, per lo meno come i mediatori per giungere a significati e a prospettive perennemente nuovi. Ed è anche ovvio che l'adottare dei lieviti non significhi cibarsi soltanto di essi.

 FORSE TUTTO CIÒ sarà un modo soltanto cordiale ed esterno di rottura e di ricomposizione. Ma il sistema tocca motivi non soltanto strutturali: la letteratura attinge la propria libertà fondamentale qualora disponga di un'assoluta spregiudicatezza di forme, necessarie - oltre tutto - anche alla sua libertà morale. Ricordiamo che l'abitudine ottunde la percezione: e non soltanto quella artistica.

      [2]

 Perché facciamo tanto insistentemente una rivista?

 Perché è il luogo dove alcuni uomini di cultura possono compiere la verifica di un dialogo e di una esperienza condotti in comune e in pubblico (con altri eventuali interlocutori: per superare, tra l'altro, il separatismo specialistico di settori ben qualificati della nuova cultura).

 Perché vogliamo modificare alcuni fastidiosi comportamenti della nostra cultura letteraria, accreditati dalla pigrizia intellettuale, dalla resa ideologica, e dall'industria culturale.

 Come si fa una rivista?

 Dibattendo di continuo le idee nostre e altrui, e tentando di offrire al dibattito delle pezze d'appoggio (compromettenti).

 È difficile. Noi (scrittori) operiamo nella molteplicità. Bisogna congiungere la molteplicità, accostarne i lembi diversi, ma non mai unificarla. L'arte è ricambio perpetuo.

 Allora, per esempio, i generi. I generi sono le procedure del blocco, gli stampi di ogni riduzione. Sono scorciatoie ormai facili. Come illimitato è il repertorio, così sono illimitati i suoi contenitori.

 Auspichiamo quindi un certo (ancora incerto!) saggismo, che sia coacervo spregiudicato di tutte le modalità - anche qui l'ars combinatoria - e di tutte le catogorie confluenti in un ricambio sempre ravvicinato, in una tensione sempre disinvolta, a tutti i livelli di forme e contenuti...

 Anche perché temiamo la noia del dottrinarismo, dell'elegiaco che si autocompiange, dell'astratto poeticistico e ideologico insomma, trappole mortali dell'intelligenza che si ferma su se stessa. Ma temiamo altrettanto la giocosa fatuità.

 Divertire? Teniamo presente che ormai la parola, nel mondo attuale, ha un significato diverso. Oggi potrebbe voler dire: convertire, convertire altrimenti. Quindi, se mai: convertire divertendo, cioè individuare nuovi luoghi e guidare ad essi.

 È un ossimoro! Facciamo festa all'ossimoro, alla contraddizione nei termini, alla concordia discors, alle alternative, a qualsiasi procedura che stimoli la verifica e lo scontro dai quali possano scaturire categorie nuove e altrimenti improgettabili.

 E poi, anche la nozione della noia è cambiata. Altre sono le monotonie e le uggie, altri i diletti. Individuarli.

 Nucleo dell'azione: rinnovare gli strumenti espressivi, però con la certezza che si portano dietro i significati. Quindi rinnovare i significati. Ecco come l'azione letteraria è anche politica.

 Diffidenza verso l'evasione che è fine a se stessa. Ma non tutto è evasione passiva. Ce n'è anche una attiva. Ed è quella che in sé formula e propone le alternative di ricambio, per il rovesciamento di una realtà presente, opprimente e ossificata. L'immaginario è valido quando sia il contro-stampo di una realtà presente di cui deve tener conto (e plausibilmente riferito al contesto in cui siamo immersi): la satira, la parodia, ecc. Non si gioca mai con le parole, ma coi significati delle parole.

 Altrettanta diffidenza verso i sistemi chiusi, apriscatole di tutto.

 Scetticismo verso gli interventi "dal di fuori", che facendo pulizia totale aprano spazi vergini alle formulazioni della conoscenza. La conoscenza, cioè la cultura e la letteratura, deve conquistarsi da sola questi spazi, cogliere le occasioni, adattare i suoi strumenti a queste occasioni (aggiornarsi di continuo è la rivoluzione).

 Nessuna disgiunzione tra teoria e prassi. Fare letteratura è fare. Basti pensare agli effetti "civili" della libertà linguistica.

 Non aver paura di apparire "giullari". L'irrisione continua impedirà al sistema di riassorbirci. Bisogna togliergli la parola ed è fatta, bisogna obbligarlo a servirsi del nuovo linguaggio. Sarà lui ad essere riassorbito e capovolto.

 Guardarsi dalla certezza che la parola rappresenti sempre la cosa.

 L'uso del linguaggio non è mai abbastanza ambiguo. Ambiguo è soltanto il generico (le care, vecchie abitudini).

 L'ambivalenza delle parole è una manifestazione della resistenza che il mondo (la società) oppone a terrorismo dei significati bloccati e univoci. È il segno che i valori tendono a spostarsi.

 Avvertire la connotazione di ogni parola, il suo "al di là".

 Accreditare la nuova retorica come smascheramento della pubblica sintassi, come grammatica della provvidenza (che vuole essere un po' aiutata). Non sono soltanto dei nomi che cambiano.

 L'ironia è la leva più efficace per operare gli spostamenti di senso. Impone l'udienza, nel parlatoio del bla-bla, a tutte le possibilità, non solo a quella di Sua Maestà. E prima di tutto è autoironia.

 Portare "in campo" (sui testi in atto) la razionalità astratta ed eccessivamente formalizzata degli operosi e validissimi glottologi. Una nuova alleanza.

 Retorica come contro-retorica, antidoto contro il sublime, il generico, la fluente e automatica persuasione, gli impieghi fuorvianti e fuorviati. Individuare i nuovi meccanismi della trama, che sono ormai mobilissimi, e non astratti.

 L'innovazione verbale è sempre anche innovazione ideologica. Abbiamo il privilegio di poter fare la prima mossa.

 Le parole producono comportamenti nuovi, se sono modellate alla realtà attuale.

 L'italiano è una lingua libera? Come applica la sua libertà, in quale direzione?

 Il linguaggio non è un fine.

 La cultura non deve impadronirsi del potere, che è statico. Il potere vuole che i nomi non cambino.

 La libertà linguistica non è un programma, non è un diritto soltanto: è un dovere (l'obbligo della verifica continua).

                                                                         (da aggiornare di continuo)


Nota

 Le "note di regia" scritte da Giambattista Vicàri (1909-1978), giornalista di professione, letterato per passione ed editore, sul perché e sul come fare una rivista (titolo naturalmente redazionale), di cui ci sembra superfluo sottolineare la grande attualità, sono apparse rispettivamente sul numero 6, 1957, p. 48, e sul numero 1, 1970, pp. 191-194, della rivista il Caffè, fondata e diretta dal 1953 dallo stesso Vicàri. Al primo testo seguì un lungo dibattito con interventi di Giorgio Bàrberi Squarotti (7, 57, p. 48), Mario Pomilio (8, 57, pp. 45-47), Ferdinando Virdia (1, 58, pp. 44-47), Thomas Lamb (2, 58, p. 54), Claudio Gorlier (3, 58, pp. 47-48) e Ornella Sobrero (4, 58, pp. 44-47).
 Ripubblichiamo queste note sia per sottolineare le affinità di linea culturale rintracciabili tra l'esperienza storica de il Caffè e quella (ben più modesta, s'intende) della nuova serie di Tèchne, sia per segnalare la costituzione, avvenuta nel 1994, dell'"Archivio e Centro Studi il Caffè".

da Tèchne, 7, 1998, pp. 54-60.



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