pagina del sito di Tèchne di Paolo Albani

Riccardo Boglione (*)
TORRICELLI:
COAZIONE A SPERIMENTARE



    “La strategia promette eversioni, obbietta obbiettanze. Agisce azioni?” (1) Con questa arguta domanda retorica, Bruno Lo Monaco discettava, imitandone lo stile, dell’operazione poetica di Gian Pio Torricelli messa in atto nel suo primo libro, Dunque Cavallo, pubblicato da Sampietro nel 1965. La risposta – affermativa – va rintracciata nel fulmineo passaggio di Torricelli attraverso la letteratura italiana, basandosi tutto sui suoi scritti e nulla sulle poche tracce biografiche ricostruibili (2).
  Torricelli entra ufficialmente nel gruppo dei Parasurrealisti nel 1964, assieme a Ferdinando Albertazzi, con un tipo di poesia fregiata soprattutto di due emblemi: quello di un poetare dove “non c’è spazio che per il grottesco” e di una scrittura che sembra straripare dalla pagina quasi fosse un “torrente linguistico che non può non debordare, sconfinare, toccare i limiti dell’invenzione lessicale pura, e subito dopo, quelli della pura invenzione sintattica” (3), come lo definisce Spatola parlando anch’egli del suo primo libro, Dunque cavallo.  Questa prima prova è composta da ventidue brevi poesie che sono una specie di associazione surrealista al cubo, con un senso della provocazione che attiva i testi fin dai titoli, passando dal colto citazionismo (“Angelus Novus”, “L’Auerbach invece”, “Epigramma”, ecc.) all’occhiolino ai titoli di giornale e rotocalchi (“Tradita dalla sua stessa mano”, “La poligamia come rimedio alla noia”) alle immagini sorprendenti e crudeli (“La stampella amputata”, “La vita deragliata”, “Del taglio cesareo”). Il torrente di cui parla Spatola si gonfia di neologismi che come larve sembrano nascere dal deterioramento di parole esistenti. Riporto, come rapido specimen appena questi quattro versi:

            E il teschio dolicocefalo e prognato/ spinta all’indietro ogni tanto come per una ticchiosi dello splenio (“Una cosa che Silvia è riuscita a fare”); nella quadratura del cerchio mediante cocleoide e dalle equidifferenze/ della sua equazione quartica salgono le antifone alleluiali bollicine… (“Punching-ball”).


            A qualche raro semplice gioco di parole (“all’ombra delle fanciulle in forse”, “tartarighe”), si affianca un vortice di neologismi incentrati soprattutto sulla terminologia medica e scientifica (esempio perfetto “Neolalia a requiem”) (4). Si evince nei suoi versi e nella sua prosa ciò che chiamerei un atteggiamento anti-ironico della scrittura: nonostante affiorino qua e là puns (però scarsissimi numericamente), il deturpamento della lingua è talmente invasivo da risultare sempre “serio,” opaco e greve, e il grottesco stesso, presente, appare come un “virus radioattivo brulicante nella piaga” per citare un verso di “A proposito di sostanze liquide gasificabili”, quartultima poesia della raccolta.
            Le due caratteristiche individuate da Spatola, grottesco e invenzioni linguistiche, si ritrovano dunque, a differenti gradi, in tutte le composizioni del poeta emiliano, che, anche dal punto di vista ideologico si presenta come uno dei più agguerriti soldati nella lotta contro ogni concessione ad un’arte “godibile”, che sia cioè anche d’intrattenimento, e che Torricelli legge sempre e comunque come una consolazione borghese (5). Durissime, ma anche assai lucide, infatti, le sue parole al dibattito apparso sulla rivista Trerosso proprio su leggibilità e illeggibilità, dove memore di alcune riserve mostrate da membri sparsi del Gruppo alle prove sue e di Vicinelli (proprio per la radicalità delle proposte, indirizzate soprattutto verso una idea di poesia come performance), sostiene a proposito del primo periodo della neoavanguardia, che “dopo una prima urgente fase contestatoria semplicemente prodotta all’interno della data contestabilità, e cioè all’interno delle convenzioni, dei luoghi comuni e dei generi culturali, si sarebbe poi subito dovuto passare ad una […] contestazione radicale della data contestabilità.” (6) Torricelli ha chiari i limiti di una ricerca i cui risultati con troppa fretta e facilità vengono risucchiati da una produzione “regolarizzata, sostanzialmente immobilistica e, forse, pure accademica.” Il suo antidoto è di una letteratura in cui, come sottolinea Spatola, “un eccesso di erudizione […] esplode sulla faccia del lettore come un melograno maturo – o un bubbone” (7), dove il tessuto linguistico è una caricatura della scrittura scientifica (poiché largamente creduta oggettiva) che viene fatta saltare in aria appunto attraverso un accumulo di bizzarria anche tematica che non lascia tregua e intacca perfino, in alcuni casi, il finto apparato di note che, lì messe ai piedi del testo, del testo si burlano capziosamente (8). Il procedimento è evidente – essendo sempre più drastico nei risultati – porta a una proliferazione di neologismi pseudoscientifici e pseudomedici inseriti nella sospensione perenne di una qualsiasi trama. Si guardi ad esempio un passaggio come questo, tratto da una prosa del 1964, Stechiotrono, di cui propongo, in assaggio, solo l’incipit e l’explicit:


            Carne amorfa d’eulindrosma fasciato di nermo alla monezitrina […] (5) Benopio di Bellatrix la tentò quando nella zona Cassiopea, segetendo la xo di Algòt, fruolinto in cerchio da 7000.00000.00 ruomi di Riegel, mentre gli ugeridi andromedi sezionavano lo sfonnio relettivo nel prommo uliccoiedrinopale, e lo svuopo del rincenodio oloonettava la erpoida unilissa: X: Oe717 = X °°. (6) cioè, secondo il compleuno di noviesta, o fra un’isola e la terra ferma. (7) Parte finale del monosfedo (9).


             Cresce esponenzialmente la densità dei neologismi (o di lemmi, prefissi e suffissi che, pur esistendo nei vocabolari scientifici vengono degradati anch’essi, a causa del contesto, al ruolo di oscuri giochi di parole), la loro ricorrenza è tale che il senso dell’intera opera poggia sulle poche particelle riconoscibili, usualmente le preposizioni, alcuni verbi, pochi sostantivi, che diventano così l’esile scheletro su cui si flette una muscolatura verbale astrusa, intaccata alle fondamenta dall’apparente impossibilità di penetrare in qualsiasi discorso coerente. Sembra riuscito dunque il piano di Torricelli di praticare una “vera e propria programmazione terroristica contro le tradizionali formule del consumo artistico”, una riduzione dell’“ideologia nel linguaggio alla sua formulazione più gestuale, appunto a favore dell’eversione dei generi letterari tradizionali e, quindi, delle istituzioni e delle mitologie intellettuali che essi rappresentano nel nostro inconscio collettivo.” (10) Ma alcuni anni dopo, nel 1968, Torricelli pubblica un libro che in apparenza si allontana molto dalle prove precedenti (nonostante il frequente uso di numeri all’interno delle sue, non molte, poesie e prose anteriori), e che però guadagna proprio sul terreno del terrorismo testuale, della più completa negazione di aspettative (di soddisfazione, di acculturazione del fruitore), un primato assoluto (11). Il titolo racchiude in un certo senso l’esplosività dell’opera, che è anche l’ultima pubblicata dal suo autore: Coazione a contare. Il volume si apre con una breve nota firmata da K. Jürgen Von Fuerbach sull’autore, e da due pagine introduttive, largamente incomprensibili, vergate dallo stesso Torricelli, cui seguono 75 pagine (beffardamente non numerate),  in cui, accentrati entro ampi margini, si susseguono un cinquemiladuecento numeri circa, ovverosia i numeri, posti in ordine crescente, che da uno arrivano a cinquemilacentotrentadue, numero ripetuto a singhiozzo per tutta l’ultima pagina, più un ulteriore cinque che chiude il volume, ma che in realtà lo lascia aperto, mettendo in moto l’inevitabile spinta a proseguire, una coercizione fatale ad avanzare.
            Il richiamo alla coazione a ripetere freudiana è immediato, ed espone subito il testo a quella pressione distruttiva che si annida nella pulsione di morte, esplicitata nel soggetto proprio dalla ripetizione simbolica di un evento traumatico (12). Torricelli però costruisce un meccanismo perverso, poiché trasla l’intero atto di lettura e lo trasforma in un interminabile atto coercitivo, giacché di fronte al nulla di una serie numerica che procede senza inciampi, in un ordine conosciuto, è impossibilitata la funzione di piacere (che proviene dalla creazione di aspettative) ma pure di dispiacere (la rottura delle medesime). Ciononostante, è implicito che la lettura acquista senso solo se si prosegue l’atto che ne costituisce l’unico avvenimento: seguirne l’andamento ripetitivo è la sola chance di ridurlo entro i confini della leggibilità, dell’esistenza. Questo atto di ripetitività è però paradossale: è radicato nella differenza, giacché nessuna parola (chiaramente i numeri sono espressi in lettere: trasformati in letteratura) nel libro si ripete veramente nella sua interezza (ad eccezione della soglia finale dove si reitera ossessivamente l’ultima cifra) ma il tutto avviene nonostante le particelle che compongono le parole, ossia i numeri decimali, si reiterino continuamente. Il testo verso il finale s’inceppa, replicando lo stesso numero, come quando, suonando un vecchio vinile, la puntina inciampa sulla polvere ripetendo lo stesso “secondo” finché poi con un colpo si riattiva, saltando a un altro brano (qui, un altro numero): epitome della fruizione imperfetta, ombra di un inesorabile ingolfamento, della fine per collasso. Non è caso peregrino che la smilza introduzione al libro del non meglio identificato Von Fuerbach (quasi certamente lo stesso Torricelli) si concluda con le parole “eutanasia dell’arte.” Si è in presenza, in effetti, proprio di un “esito thanatosico [che] abolisce l’epopea narrativa”, dello scempio di qualsiasi “intrattenimento letterario” fosse anche quello frutto di “un puerile conio di eversioni esaustive e di catabolie linguistiche” (13), insomma di una tabula rasa sia rispetto ai prodotti di svago dell’industria culturale sia di quelli dell’“avanguardia ormai regolarizzata del Gruppo 63.” (14) Un Umberto Eco quasi spaventato, durante le celebrazioni dei 40 anni del Gruppo, così lo ricorda: “Nel 1968, Gian Pio Torricelli pubblicava da Lerici Coazione a contare, in cui per una cinquantina di pagine apparivano stampati in lettere alfabetiche, uno appresso all’altro senza virgole, i numeri da uno a cinquemilacentotrentadue – se a questo si era giunti finiva allora un’epoca e doveva cominciarne un’altra” (15). Per moltissimi aspetti, quella che apre Torricelli potrebbe essere la stagione (italiana) dell’arte concettuale, basti pensare alla famosa formula di Sol Lewitt, del ’67, “Nell’arte concettuale l’idea o il concetto è l’aspetto più importante dell’opera. (…) L’idea diventa una macchina per fare arte”. O per disfarla. Ad ogni modo, Coazione a contare – in virtù anche del meraviglioso doppio senso intrinseco al titolo: costrizione a computare, dunque razionalizzare, sì, ma anche a “valere”, a “diventare qualcuno” (ovvero i due gioghi di quella società che freudianamente non può che portare disagio al soggetto) – si presenta come l’apogeo, irriducibile e non uguagliato, di quel momento oppositivo dalle cui ceneri dovrebbero nascere le “dimensioni future della comunicazione” (ancora Von Fuerbach) (16). L’abolizione di tutto il materiale letterario par excellence, e la sua sostituzione con “l’attrezzatura” dei freddi calcoli, in calcolata distribuzione, a scimmiottare una narrazione è, per Torricelli, la risposta violenta ad una domanda che Torricelli medesimo pone con una lucidità mista a cinismo, introducendo, in una delirante prosa, il suo ultimo scritto: “la letteratura non è forse un’allegoria pornografica della millenaria censura operata dalla civiltà sugli istinti biologici, tramite quella grandiosa trappola rimozionale che è stata ed è la nostra cultura?” (17) Sotto questa luce, il libro può essere letto simultaneamente, contraddittoriamente, come il peggiore degli incubi e il più riuscito dei sogni della nuova avanguardia letteraria italiana (18).
 

Note

 1) Lo Monaco, Bruno. “Recensione a Dunque Cavallo di Gian Pio Torricelli.” Trerosso 1 (1966). s.i.p.

2) Le minime che sono in grado di fornire le devo ai suoi nipoti Maria Pia Bonacini e Francesco Messori e agli scrittori Carlo Alberto Sitta e Maurizio Spatola. Nato a Modena il 6 settembre 1942, dopo aver frequentato l’Istituto d’Arte Venturi della sua città natale, si diploma maestro d'arte. Esordisce pubblicamente come pittore, in una mostra collettiva nel 1962, sempre a Modena, insieme a Claudio Parmiggiani. È probabilmente attraverso di lui che Gian Pio entra poco più che ventenne ad orbitare nel gruppo dei Parasurrealisti fondato da Adriano Spatola e Giorgio Celli a Bologna. È del 1966 la performance alla quarta riunione del Gruppo 63 di La Spezia, che fece di lui e di Patrizia Vicinelli, per un brevissimo periodo, le “stelle” della nuova avanguardia italiana. Ci sarà poi l’esperienza di Fiumalbo del 1967 - gran meeting di artisti di tutto il mondo che per alcuni giorni invadono il paesino emiliano - e la pubblicazione nel 1968 del suo secondo libro per Lerici. La pista si perde in seguito a una vicenda non verificata e raccontata da un peraltro impreciso Sebastiano Vassalli, episodio che riporto:“Gli agenti della questura di Modena lo presero un giorno che stava deduto [sic] sulla «pietra ringadora» a fumare una malboro [sic] – così a me i fatti sono stati raccontati – e gli contestarono l’uso di sostanze stupefacenti (hashish). In galera diede in escandescenze: fu trasferito al manicomio criminale di Reggio Emilia, dove ebbe come difensore Corrado Costa.” Sebastiano Vassalli, Arkadia. Carriere, caratteri, confraternite degli impoeti d’Italia. Bergamo: El Bagatt, 1983. 12. Attualmente vive a Modena con la famiglia, gravemente malato.

3) Adriano Spatola, “Cinque poeti” Nuova corrente 37 (1966) 125.

4) Riporto solo i primi tre lunghi versi: “Ventisei olti sono prusi a deligendere gli stopli della pogreunta minacciosa/ la minerva ulaticcia non cole i fossenti del potrio accidentale e da quando/ fretuo è fretuo la fione d’alutrizia è ruguria missionaria.”

5) Così lo ricorda proprio Albertazzi: “Gian Pio Torricelli, autore di poesia che ‘diventa provocazione, attacco frontale, mimesi ironica e assurda di una schizofrenia calcolata’ [secondo Spatola], cercava soprattutto di «aggredire» il lettore per costringerlo – con l’insolito – in una deviazione dall’abituale.” Ferdinando Albertazzi, “Du surréalisme al parasurrealismo” Pianeta (Maggio-Giugno 1971) 80.

6) Gian Pio Torricelli, “Evirtualizzazione di una identità ideologica-linguistica” Trerosso 2 (1966) 29.

7) Spatola, “Poeti” 124.

8) Si prenda come esempio la nota che interrompe la seguente frase che apre un breve racconto torricelliano: “Accadde inoltre che una delle tante estensioni paraesecutive o metaparlamentari della Delibera Eugenetica diede subito luogo alla seguente: ORDINANZA ORTOLAVORATIVA PECULIARE.” Il rimando a piè di pagina situato dopo le parole “Delibera Eugenetica” così recita: “Il cagnetto che dondola la testa dal lunotto posteriore.” Gian pio Torricelli, “Ordinanza Ortolavorativa Peculiare” Nuova Corrente 42-43 (1967) 268.

9) Gian Pio Torricelli, “Stechiotrono” Tau/ma 1 (1975) 1, 4.

10) Torricelli, “Evirtualizzazione” 30. 

11) Fu proprio Spatola, a proposito di questo libro, a parlare di “gesti terroristici.” Adriano Spatola, Impaginazioni. San Polo D’Enza: Tam Tam, 1984. 64.

12) Da qui l’introduzione di Freud della pulsione di morte a fianco di quella di piacere, come lo stesso psicanalista chiarisce verso la fine del suo famoso saggio: “L’aver riconosciuto che la tendenza dominante della vita psichica, forse della vita nervosa in genere, è lo sforzo che trova espressione nel principio di piacere, inteso a ridurre, a mantenere costante, a eliminare la tensione interna provocata dagli  stimoli […], è in effetti uno dei più forti argomenti che ci inducono a credere nell’esistenza delle pulsioni di morte.” Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere. Torino: Bollati Boringhieri, 1990. 89-90.

13) K. Jürgen Von Fuerbach, “Introduzione” Gian Pio Torricelli, Coazione a contare. Milano: Lerici, 1968. p.n.n.

14) Von Fuerbach p.n.n.

15) Umberto Eco “Prolusione.” Il gruppo 63 quarant’anni dopo. A cura di Renato Barilli, Fausto Curi e Niva Lorenzini. Bologna, Pendragon, 2005. 41.

16) Scrive Spatola all’uscita del libro: “Non è certo per caso che Coazione a contare si presenta come un romanzo… Una volta arrivati alla dissoluzione del genere letterario (qualunque esso sia) è possibile dare infinite false indicazioni sulla reale consistenza di un’opera, ma quello che conta è che Torricelli si rifiuti di dare un prodotto al lettore, e gli offra invece lo schema di un gioco, il pretesto per un’invenzione.” Spatola, Impaginazioni 56.

17) Torricelli, Coazione  p.n.n.

18) Vassalli dedica proprio a Torricelli (e a Dino Campana) il suo Arkadiapamphlet che segna la sua uscita dall’ambiente neoavanguardista – e così lo rammenta (con alcune imprecisioni: il libro è del 1968, e il numero a cui si arriva è il 5132 e non il 5000): “Io ricordo di aver conosciuto Torricelli a Fiumalbo, nel 1967, quando godeva d’una sua piccola notorietà per aver fatto l’eco a Umberto Eco e per aver pubblicato con le vecchie edizioni Lerici un volumetto intitolato Coazione a contare: che partendo da uno, due, tre arrivava a quattromilanovecentonovantotto, quattromilanovecentonovantanove, cinquemila. Fine.” Vassalli 12.


Testo uscito sulla rivista Steve, 38, 2010, pp. 44-49.

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(*) Riccardo Boglione è nato a Genova e vive a Montevideo, dove scrive d’arte per un quotidiano, La diaria, e alcune riviste. Si occupa da molti anni delle avanguardie e nel 2006 ha terminato un dottorato alla University of Pennsylvania, con una tesi sulle deformazioni testuali operate da artisti e scrittori italiani degli anni 60. Ultimamente si dedica alla letteratura concettuale: in tale ambito ha fondato e dirige una rivista, Crux Desperationis e ha pubblicato due libri, Ritmo D. Feeling the blanks (Gegen, Montevideo 2009) e Tapas sin libro (idem, 2011).



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