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Renzo Butazzi
VITA DI MARIO


1. L'ASCENSORE OVVERO BISOGNA ABITUARSI

    Mario e Adele abitavano in un condominio di Bustofrisone, chiamato Lapalisse perché tutti i suoi abitanti, prima di morire, erano sempre stati più o meno vivi, senza eccezione alcuna, ma dopo morto nessuno di loro era più riuscito a vivere.
    Il condominio era dotato di ascensore, che saliva e scendeva (o viceversa) in mezzo alla tromba delle scale che però non suonava mai, neppure per fare le scale musicali da do a silasidò. Comunque era utilissima anche se non suonava: bastava dire a qualcuno che l'ascensore era accanto alla tromba delle scale e tutti lo trovavano. Non trovavano però il discensore e dall'ultimo piano i più timorosi, prima di affrontare  la tromba delle scale per tornare giù, fiduciosi che valesse la regola dell'ovvio chiamavano, con la voce strozzata dal pianto, "discensoreeee, discensoreee!"
    Finché il portiere usciva dalla guardiola e gridava che in quel condominio il discensore non c'era e dovevano prendere l'ascensore anche per scendere.
    Così, quando funzionava, anche Mario e Adele lo prendevano per salire e poi scendere (o viceversa).
    Non sempre lo prendevano con le stesse modalità: talvolta erano soli ma insieme, altre volte erano soli ma ognuno per conto suo e in ore diverse, altre volte ancora erano soli, ognuno per conto suo, ma anche insieme ad altri, e talvolta Mario e Adele ascendevano o discendevano insieme loro due e anche insieme ad altri.

    Insomma il modo di viaggiare in ascensore era lo stesso che capitava in qualunque ascensore, però Mario si domandava come mai se gli inquilini, l'ascensore e il palazzo erano diversi da tanti altri, il modo di condividere o non condividere l'ascensore era quello che si verificava in altri ascensori di altri palazzi. Se ne accorgeva sia per esperienze personali, sia perché chiedeva conferma ogni tanto a qualche coppia di amici.
    Qualche volta, quando la cabina dell'ascensore, chiamata da un utente, compariva vuota il vuoto era solo apparente, perché ne schizzava fuori un topo che scappava a rintanarsi chissà dove. I topi erano una causa frequente di guasti perché rosicchiavano i rivestimenti dei fili elettrici di comando e leccavano l'olio che lubrificava il motore e il cavo di trazione fino a lasciarlo secco.
    D'altronde il guasto da topo era frequente in molti ascensori e la gente ci si era abituata.

    Quando l'ascensore non funzionava Mario e Adele salivano e scendevano a piedi. Nel salire veniva loro l'affanno, soprattutto se dovevano portare dei pesi. Più questi erano grossi, più gli veniva l'affanno. Oltre un certo peso l'affanno si mutava in un rantolo; ma se il peso era tale che nessuno dei due riusciva a portarlo su per le scale, l'affanno non veniva per niente perché dovevano lasciare il peso in attesa che l'ascensore fosse rimesso in servizio. Una volta che dovettero lasciare per tre giorni un baule in fondo alle scale, o all'inizio delle medesime secondo i punti di vista, avevano coniato il detto "dente cariato va subito strappato" che non c'entrava molto ma si ricordava bene per via della rima.  Così bene che si era diffuso tra i condomini del Lapalisse ed era divenuto una formula per i brindisi. Uno alzava il calice e diceva "dente cariato...."  l'altro, alzando a sua volta il bicchiere, rispondeva " va subito strappato".
    L'unico condomino con il quale nessuno faceva un brindisi con questo rituale era il dentista che aveva lo studio al piano terra. Le prime volte che lo aveva trovato al bar di fronte qualche condomino ci aveva provato, ma lui aveva sempre risposto che invece "dente cariato va subito curato" e si era infervorato in una disquisizione odontoiatrica lunga e noiosa.
    Quando l'ascensore era guasto e Mario e Adele scendevano a piedi, ma anche se avevano una valigia o un pacco pesante, l'affanno non lo avevano mai; avevano però il timore di mancare uno scalino e rotolare giù per le scale con il peso. Questa paura dava loro una sensazione di ansia e li faceva respirare in modo un po' ansimante che però non si poteva definire un vero e proprio affanno
    Coloro ai quali parlavano di queste difficoltà e disagi, li rassicuravano confermando che era così per tutti. Bisognava abituarsi. Così Mario si era convinto che fosse possibile formulare una regola universale sulle modalità d'uso delle scale e degli ascensori nei palazzi ad appartamenti. Una volta definita l'avrebbe messa a disposizione di tutti coloro che abitavano più su del primo piano in modo da rendere più facile che si abituassero ai piccoli inconvenienti dei guasti da topo e sapessero quali combinazioni di utenti potevano incontrare durante l'uso dell'ascensore..
    Ci stava provando da tempo ed era riuscito a impostare il ragionamento di base: si abbia un palazzo P di X-1 piani (se non ci sono box sotterranei o cantine chi abita al piano terra non usa l'ascensore ma solo le scale) con Y appartamenti e Z residenti in grado di raggiungere almeno con un dito i bottoni dell'ascensore e di piegare le ginocchia quanto basta per passare da uno scalino all'altro. Si abbia nelle cantine e/o nei garage sotterranei una comunità di n topi con n tendente ad infinito...
    Poi non era stato capace di andare avanti e questa incapacità lo aveva molto avvilito. Finché ci si era abituato ed aveva preferito dedicare il tempo libero al gioco delle bocce.


2. ADELE

    La moglie di Mario, Adele, era bruna e formosa, ma non aveva begli occhi neri, né verdi, né azzurri. Li aveva marroncini e piccoli, e anche se cercava di allargarli con due baffi di rimmel rimanevano come erano. Però, quando li chiudeva, il colore degli occhi non si vedeva più e non si sarebbe visto neppure se fossero stati neri, verdi o azzurri. Mentre il colore dei capelli si vedeva anche quando teneva gli occhi chiusi.
    A meno che non fosse notte, perché al buio neppure quello si vedeva. Non solo, ma al buio non si vedeva neppure il colore degli occhi anche se erano aperti. E neppure si vedeva se erano aperti o chiusi.
    Insomma, se il buio era fitto, di Adele non si vedeva quasi niente e lo stesso accadeva per Mario. Al buio non si distingueva l'uno dall'altro se non toccandoli, mentre alla luce apparivano diversi e si capiva che lei era una donna e lui un uomo senza bisogno di toccarli. Ma per tutti accadeva così e c'erano abituati.

    Adele si era accorta che la notte era piovuto perché aveva sentito lo scroscio dell'acqua che cadeva sul tetto e sulla strada, un rumore che distingueva sempre benissimo da ogni altro rumore, anche se meglio di tutto lo distingueva da quello di un cane quando abbaia.
    La notte che spararono all'onorevole Pastori, facendolo secco proprio sotto la loro casa, pioveva forte e c'era un cane che abbaiava, così che i colpi di pistola si mescolarono agli altri due rumori. Per un po' di giorni Adele riuscì a ricordare il rumore degli spari sotto la pioggia insieme a quello di un cane che abbaia, ma poi spari non ce ne furono più in quella zona e il ricordo sonoro svanì. Adele seguitò a distinguere perfettamente soltanto il rumore della pioggia dai cani che abbaiano.
    Se era sveglia pensava: «Senti, questo è un cane che abbaia, chissà perché è così diverso dal rumore della pioggia». Perché non si contentava di registrare i fatti ma voleva spiegarseli. Soltanto perché avessero sparato all'onorevole Pastori non se lo chiese mai perché sapeva che non sarebbe mai arrivata a capirlo. E non le interessava neppure tanto.
    Adele aveva un diploma di ragioniera ma, non avendo trovato un lavoro adeguato al diploma, gestiva la merceria della madre, la signora Tina, che si era ritirata per gli acciacchi dovuti all'età.
    La figlia considerava l'ordine una qualità fondamentale per svolgere bene la propria attività di merciaia. L'importanza che attribuiva all'ordine era testimoniata anche dal sistema di conservazione dei bottoni e fermagli. Questi articoli erano classificati in base al materiale, alla forma e alle dimensioni e riposti nei cassettini di un mobile che occupava un'intera parete. Ogni fila di cassettini era contrassegnata da una lettera ed ogni colonna da un numero, come nei fogli a quadretti per la battaglia navale. Il contenuto e la posizione di ogni cassettino erano registrati in una rubrica alfabetica che era l'orgoglio di Adele.
    E quando una cliente cercava un bottone più raro del solito, magari esagonale, in madreperla e stoffa, griffato, con l'attacco nascosto nella parte interna Adele controllava sulla rubrica e individuava un cassettino: A7, diceva, oppure F Dodici.
    Talvolta, accadeva che nel cassettino quel bottone non ci fosse e allora Adele ricorreva al vecchio metodo della mamma: guardare gli esemplari fissati all'esterno di ogni cassetto per individuare quello pertinente, sapendo che in alto erano i più costosi e in basso i più comuni. Se il cassetto era in alto l'Adele saliva su uno scaleo per arrivarci, se invece era basso non ci saliva. Si era però così abituata a salirci che una volta lo aveva fatto anche per prendere dei calzini che stavano in un cassetto basso. Si era dovuta chinare troppo ed era caduta nel cassetto a testa in giù. Per fortuna era quello dei calzini di lana e non si era fatta niente. Fosse stato quello degli specchietti, degli aghi o dei ferri da calza avrebbe potuto sfigurarsi. La sera lo raccontò a Mario facendo nascere anche in lui un dubbio grave: «chi non si abitua è perduto oppure è perduto chi si abitua?»

    Sotto il piano di vetro che copriva il banco Adele aveva inserito un cartello con la frase «Ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa», il cui testo era orientato verso di lei e non verso i clienti, per non dare l'idea che volesse far la lezione a qualcuno.
    Malgrado questo le clienti lo leggevano e non di rado la frase accendeva in qualcuna la voglia di esporre la propria opinione e illustrare il proprio comportamento a tale riguardo.

    Di regola le interlocutrici si dividevano in due categorie: quelle che affermavano di condividere la regola riuscendo ad applicarla e quelle che la condividevano ma, per quanti sforzi facessero, non riuscivano a metterla in pratica. Quasi tutte coloro che appartenevano a questa categoria davano la colpa del disordine al marito, ai figli, alla madre convivente, alla donna delle pulizie, alla baby-sitter, al cane, alla malignità della suocera o, viceversa, alla trascuratezza della nuora.
    Quelle che venivano in negozio con il cane lo accusavano del disordine senza alcun riguardo per l'animale, che non replicava mai, ennesima prova della sua fedeltà e riservatezza. O del suo disinteresse per quanto diceva la padrona
    Quelle che invece accusavano la suocera o la nuora erano molto più caute. Parlavano sottovoce e non ne facevano mai il nome ma dicevano soltanto «quella lì» o «quella là».

    Secondo la nuora Baldini, «quella là» era più maligna di una strega. Veniva a trovarli quando loro non erano in casa, facendosi aprire dalla donna delle pulizie e mentre questa era impegnata nelle sue faccende, cambiava l'ordine della biancheria riposta dalla nuora nei cassetti. Così il figlio non trovando le sue cose al solito posto, accusava la moglie di essere disordinata e proponeva di far venire «la strega» a rimettere in ordine. Una proposta che scatenava discussioni e crisi di pianto.

    Talune clienti svisceravano il loro rapporto con l'ordine seguitando a esaminare con attenzione gli articoli dei quali avevano bisogno. Altre, più passionali, soprattutto quando c'entravano la suocera e/o il marito, si concentravano sul racconto interrompendo l'esame del bottone o del nastro, che però seguitavano a tenere in mano, finché non avevano finito la perorazione della loro causa. Così che Adele, mentre le ascoltava dando loro la soddisfazione necessaria per non perdere il cliente, doveva stare attenta che non se ne andassero con il nastro o il bottone senza pagarlo.



3. MARIO E LA PIOGGIA


    Aveva cominciato a piovere verso le otto di sera. Prima la strada era asciutta ma dopo mezz'ora di pioggia fitta era bagnata. Piovve tutta la notte e al mattino presto la strada era sempre bagnata. Quando però, cessato di piovere, sorse un bel sole caldo, come sempre, si asciugò. Non tutta, però. Dove il selciato era infossato erano rimaste le pozzanghere che si sarebbero asciugate più lentamente, se non fosse piovuto ancora.

    Non sempre la pioggia era intensa. A volte era di gocce rade e sabbiose, chissà da dove veniva. Sporcava le carrozzerie delle auto e soprattutto i parabrezza, così che chi guidava ci vedeva male. Anche chi sedeva accanto o dietro il guidatore ci vedeva male però non era importante.
    Mario portava gli occhiali, era magro e con pochi capelli grigiastri. Le persone più alte lo giudicavano basso e coloro che erano più bassi lo giudicavano alto. Quelli alti (o bassi) come lui, dicevano che era di statura media e lui era contento perché così faceva parte della maggioranza che ha sempre ragione. Anche se talvolta ha torto, ma basta non farci caso.

    Mario si spostava raramente con l'automobile, ma teneva sempre nel portabagagli un bottiglione d'acqua per pulire il vetro se il serbatoio del tergicristallo fosse rimasto vuoto.
    D'altronde ci vedeva poco bene anche quando il parabrezza era pulito e preferiva andare a piedi o con i mezzi pubblici.
    Se non pioveva capitava spesso che il vento facesse volare la polvere delle strade un po' sconnesse e dei muri scrostati irritandogli gli occhi e facendolo tossire.
    Non che questi piccoli incomodi affliggessero solo lui, ma gli altri ci facevano meno caso e tra loro dicevano sempre «bisogna abituarsi». E ricordavano un detto imparato dai genitori che lo avevano appreso dai nonni e dai bisnonni: «Chi non si abitua è perduto».
    Lui non era riuscito ad abituarsi a tutto, ed era stato dal medico perché gli ordinasse l'Abitulin, una medicina che migliorava la capacità di assuefazione. Dopo un breve miglioramento ebbe la sensazione che le pillole d'Abitulin non gli facessero più niente: a quelle si era abituato.

    Mario non aveva niente contro l'acqua e amava il mare, i laghi, i fiumi e tutta l'acqua per uso domestico e farmaceutico, come l'acqua di Sirmione con la quale si faceva irrigazioni nel naso. Era quasi sempre depresso e al mare gli piaceva fare il morto. Solo galleggiando immobile si sentiva a suo agio.
    La pioggia, invece, la detestava. Prima di tutto perché l'acqua gli si infiltrava nelle scarpe. Un tempo, quando la suola e il tomaio erano cuciti tra loro, l'acqua gli passava tra le cuciture, soprattutto dalla punta. Poi, quando venne l'epoca delle scarpe con le cuciture false perché i pezzi erano incollati, l'acqua gli passava tra le piccole crepe nel mastice. Una volta aveva comperato delle belle scarpe alte con vistose cuciture, tipo anfibi, come si chiamavano gli stivaletti dei militari, ma dopo qualche anno che le usava gli si staccò una delle suole di gomma: le cuciture erano finte, soltanto decorative. Camminando sentiva fare ciak, ciak e pensava che ci fosse dell'acqua per terra, anche se non pioveva da una settimana; poi, invece, si accorse che era il rumore della suola che batteva a ogni passo contro la suola di mezzo, la tramezza, come gli disse il calzolaio che la riattaccò.
    Insomma, quando pioveva sentiva l'acqua che lentamente gli inumidiva l'interno della scarpa e poi i calzini. Se non poteva cambiarsi subito scarpe e calzini gli veniva il mal di gola e magari anche un po' di febbre.
    Inoltre, siccome c'erano parecchie grondaie rotte, anche se aveva l'ombrello, qualche gocciolone in caduta libera lo colpiva sul collo, dietro la nuca, e gli scivolava sotto la camicia dandogli una sensazione sgradevole di freddo bagnato.
    Chi non si abitua è perduto, pensava, ma come è possibile abituarsi ai calzini bagnati e ai goccioloni dentro il colletto? E poco dopo cominciava a starnutire, a soffiarsi il naso, a raschiarsi la gola.

    La pioggia favoriva lo scrostamento degli intonaci esterni e già una volta un pezzo d'intonaco staccatosi dall'edificio della Questura gli aveva sfiorato l'orecchio destro e colpito la spalla sottostante. Mario aveva gli orecchi sporgenti, tanto che gli studenti lo chiamavano bonariamente «Orecchioni». Quando seppero dell'incidente dissero che con quelle orecchie era stato fortunato a non perdere il destro: bastava che l'intonaco invece di sfiorarlo lo avesse colpito ed era fatta. Così lo avrebbero chiamato «Orecchione». La cosa li fece ridere per qualche giorno (naturalmente non di continuo) e ogni tanto gli dicevano «prof, attento a non passare troppo vicino alla Questura».

    Non è che in tutte le strade e le piazze ci fossero intonaci che cadevano, però in certi quartieri era consigliabile seguire percorsi delimitati con nastri colorati, come nelle aree minate, dove c'è stata da poco una guerra. Per questo motivo il centro storico veniva chiamato il recintato, perché era l'area con più rischi di cadute e più nastri.
    Nella zona poteva accadere che oltre all'intonaco cadesse qualche anziano o qualche ubriaco, magari cercando di scavalcare un nastro di limitazione. Chi cadeva lì era più fortunato di chi cadeva nei nuovi quartieri residenziali, perché nella parte vecchia della città era più facile che qualcuno si affacciasse per vedere cosa era successo. Poi, se il caduto non si rialzava da sé, chiamava un ambulanza che prima o poi lo portava via.

    Esistevano anche quartieri residenziali con case in buone condizioni, magari di lusso, con portinerie sempre in servizio e portinai che facevano i turni di giorno e di notte. Lì però la gente che era restia ad affacciarsi proclamava di farsi soltanto gli affari suoi, di non avere tempo da buttare, di non voler seccature.



4. IL CONTRIBUTO DI MARIO ALLA CULTURA

          
    
I circoli culturali di Bustofrisone erano tre: il Circolo dei Suonatori di Pettine, l'Accademia dei Liberi Grammatici, e il Circolo dei Fatalisti, il cui motto era Il Fatalismo è Tolleranza.

            Mario si era iscritto a quest'ultimo quasi per fatalità, perché lo erano stati anche suo padre, i nonni i bisnonni materni e paterni e due vecchi zii.

       Partecipava a tutte le iniziative del Circolo perché ogni anno pagava la quota d'iscrizione e intendeva sfruttarla, anche se convegni e conferenze non lo interessavano per niente. Quasi sempre, a un certo punto si addormentava, tanto che gli altri soci consideravano l'inizio del suo leggero russare - un soffiare aereo, vivacizzato da qualche ronzio - una fatalità. Anche se contrastava con il rispetto dovuto a un circolo culturale essa contribuiva ad arricchire di nuovi spunti la discussione e gli abituali conciliaboli che si tenevano fuori sala, soprattutto perché il sonno di Mario non si manifestava sempre allo stesso modo ma variava per inizio, durata, rumorosità e ritmo del respiro.

           Fin dalle prime conferenze alle quali aveva partecipato Mario, il numero dei presenti era cominciato ad aumentare. I responsabili del circolo non si accorsero della coincidenza e ne furono da principio lusingati, pensando che le loro iniziative fossero apprezzate sempre di più ma poi si dovettero ricredere. Infatti appena Mario si era addormentato, molti dei nuovi venuti davano un occhiata all'orologio e se ne andavano. Probabilmente parecchia gente veniva per la curiosità di un fenomeno così singolare: un partecipante che non mancava mai e che si addormentava sempre. Forse la loro curiosità era stata soddisfatta e l'incredulità svaniva. Prima di andar via qualcuno prendeva un appunto sull'agenda o in un foglietto che metteva in tasca; anche i meno curiosi si accorsero che registrava l'ora in cui Mario si era addormentato

           Finché venne la sera in cui insieme a Mario si addormentarono altri due partecipanti. L'evento si ripeté in più occasioni, così da stimolare un nuovo tema di discussione: alcune fatalità sono contagiose?

            Ma i più maliziosi ed attenti ipotizzarono piuttosto che Mario e altri fossero pagati per addormentarsi durante i convegni perché era nato un giro di scommesse su quanti e quando si sarebbero addormentati.

            Insinuavano anche che i conferenzieri fossero incoraggiati da qualche consigliere del circolo a tenere conferenze lunghe e noiose per essere certi che qualcuno si addormentasse "spontaneamente"... Altrimenti, se nessuno si addormentava, nessun scommettitore avrebbe vinto niente, come se in una corsa di cavalli nessuno fosse riuscito a tagliare il traguardo.

            Questa deprecabile abitudine - non che qualcuno si addormentasse ma che ciò desse luogo a scommesse - venne chiaramente alla luce durante una tavola rotonda sul tema "Il colpo di sonno come fatalità" quando - malgrado l'attualità del tema e la drammaticità delle implicazioni - su una cinquantina di partecipanti se ne addormentarono quindici.

            La presidente del circolo, anziana e incorruttibile studiosa di Fatalismo Applicato, che aveva organizzato l'evento si insospettì e con lo spillo di un medaglione li svegliò uno per uno. Tre si svegliarono senza capire bene cosa fosse successo perché intontiti dal sonno ma dodici si svegliarono in un attimo, imprecando perché qualcuno li aveva punti. Evidentemente costoro fingevano di dormire e il consiglio direttivo ne decise l'espulsione con la motivazione che durante una conferenza era tollerabile dormire - purché senza rumori molesti - ma non era lecito fingerlo. Appena la norma fu inserita nello statuto il numero di coloro che si addormentavano tornò ai suoi valori fisiologici: due o tre persone, una delle quali era quasi sempre Mario.

            Anche il numero degli scommettitori diminuì perché le "quote" alle quali venivano dati i possibili addormentati erano piuttosto basse, come in una corsa alla quale partecipano pochi cavalli e tutti dello stesso valore.

            I partecipanti tornarono ad essere quelli che avevano un reale interesse per la cultura. Cioè pochissimi.



5. MARIO E L'ISPIRAZIONE

 

            Mario voleva fare lo scrittore, almeno come hobby. Gli sarebbe bastato riversare le proprie riflessioni e fantasie - quando gli sarebbero venute - su fogli immacolati di candida carta, come pare che facessero gli scrittori. Lo aveva letto, ascoltato alla radio, visto al cinema e alla TV. Se lo facevano tanti sconosciuti, perché lui no?

            Quella domenica sera non aveva niente di particolare da fare. I temi dei ragazzi li aveva riguardati tutti e sua moglie Adele era andata con la madre nel negozio di merceria, aperto fino a tardi per la fiera locale di Santa Anastasia.

            Era al gabinetto dove cercava di vincere la stitichezza facendo un cruciverba a chiave. Il nome che veniva fuori come chiave era Maria Cecilia Strinà, un'autrice specializzata in romanzi horror basati sul pericolo delle piante carnivore. L'ispirazione come un lampo gli aveva acceso nella mente un titolo bellissimo: "Il carciofo antropofago". Si pulì rapidamente, si alzò dal water, tirò l'acqua e si fiondò nello studio-soggiorno dove di solito dava ripetizione ai più duri ma i più abbienti della classe. Doveva far presto perché l'ispirazione stava già smorzandosi un poco, come una candela accesa sul finire

            Strappò un foglio rimasto bianco da uno dei compiti impilati sul tavolo che lunedì avrebbe dovuto riportare ai ragazzi e cominciò a scrivere il titolo. Ma un pelo di non si sa cosa, forse un sopracciglio, forse un pelo del naso si era attaccato alla punta della biro perciò la carta ancora immacolata venne deturpata da un "Il" che finiva con un baffaccio anomalo.

            Un titolo che cominciava così male sembrava a Mario di cattivo augurio; inoltre, non voleva cominciare il suo primo romanzo con una correzione, una patacca, come diceva agli alunni. Prese il foglio, ci pulì la punta della biro, lo appallottolò e lo gettò nel cestino. Poi ne prese un'altro sul quale ricominciò a scrivere: Il... L'articolo gli era venuto bene ma nell'appallottolamento si era sporcato la mano destra e appena l'aveva appoggiata sul foglio nuovo ci aveva lasciato un'impronta bluastra.

            Quasi automaticamente gettò nel cestino anche quello, si pulì la mano con un fazzolettino di carta e prese un altro compito. Ogni lavoro che doveva correggere aveva un foglio bianco perché aveva ordinato agli alunni di non riempire più di due colonne di un protocollo. Gli alunni sapevano benissimo che il secondo foglio, facciata tre e quattro era destinato al prof, una specie di tangente su ogni tema. Che Mario giustificava politicamente affermando che con quanto lo pagava lo Stato era gravoso perfino comperare una risma di fogli dal cartolaio. Per tagliare il foglio bianco da quello con il tema prese dal cassetto una delle cartoline illustrate che ogni tanto riceveva da colleghi e amici in gita scolastica o in vacanza.

            Scelse la cartolina della Bertinelli da Parigi, che essendo la più recente - quindi la meno usata - era anche quella che tagliava meglio; tagliò il foglio bianco da un compito e rinnovò il tentativo. Purtroppo, il titolare di quel tema, Codiboni Ernesto, aveva probabilmente appoggiato le dita un po' unte di patatine sul foglio, fatto sta che per quanto Mario pigiasse la biro non faceva presa.

            Prese allora una matita ma appena la premette sulla carta per il fatidico Il... la punta venne via. Forse, in una delle numerose cadute, la mina di grafite si era rotta.

            Mario prese allora il temperamatite, ci infilò la matita spuntata e si mise a girarla. Dopo un poco che temperava udì un leggerissimo scricchiolio e si accorse che la grafite, ormai semiappuntita, a contrasto con la lama si era troncata un'altra volta. La mina quasi non si vedeva più, nascosta dentro la camicia di legno che la conteneva.

           Estrasse dalla cartella il portachiavi e con il coltellino a più lame che vi era attaccato si mise ad assottigliare il legno in modo da portare nuovamente la mina alla luce.

            Soffiò sul tavolo per ripulirlo dai piccoli trucioli e dalla polvere di grafite, prese un foglio nuovo e ricominciò a scrivere.

            Ma l'ispirazione ormai era quasi completamente svanita. Ricordava solo la prima parte del titolo: "Il carciofo..." ma il resto non gli veniva in mente. Fece vari tentativi - il carciofo verde... senza spine... vegetariano... esplosivo... parlante - ma erano tutti attributi che non lo convincevano. Sentiva che non avevano niente a che fare con l'ispirazione che aveva avuto e perduto. Lo intrigava abbastanza l'idea del carciofo esplosivo ma il tema degli attentati era ormai troppo banale. Anche il carciofo parlante non era male, lo faceva pensare a suo cognato Pierpaolo ma non aveva intensione di scrivere qualcosa, fosse pure un semplice titolo, che lo facesse litigare con Adele.

            Decise di abbandonare il carciofo come personaggio principale del romanzo e di aspettare che l'ispirazione gli facesse venire in mente un nuovo titolo e così un nuovo tema. Nell'attesa gli venne sonno e questo lo pose davanti a un dilemma. Se l'ispirazione fosse venuta mentre lui dormiva l'avrebbe persa ancora. Ma se fosse stato il sonno frutto dell'ispirazione? Se fosse stato quello il nuovo tema che cercava? Decise di affidarsi alla sorte. Prese di tasca un euro e lo gettò in aria. Se cadeva mostrando la faccia con il valore avrebbe seguitato ad aspettare l'ispirazione da sveglio. Se mostrava l'altra faccia sarebbe andato a dormire.

            Per l'appunto, mentre l'euro frullava in aria per poi ricadere, si dimenticò quale delle due alternative aveva vincolato alle facce della moneta. Nel dubbio andò comunque a dormire, predisponendo un foglio e una matita sul comodino. Anche se l'ispirazione fosse comparsa sotto forma di sogno voleva essere pronto a metterla al sicuro appena si fosse svegliato.

            Erano le due di notte quando si svegliò per andare in bagno. Quando tornò vide il foglio e la matita sul comodino e per non perdere l'ispirazione che gli era venuta in quel momento ci scrisse "Pipì". Ma era un'ispirazione notturna ed è risaputo che se uno ci dorme sopra l'ispirazione non si ritrova al mattino. Insomma, al mattino fare la pipì gli sembrò una cosa normalissima e quasi non ricordava perché lo aveva scritto sul foglio.

          Adele, già alzata, glielo chiese. "Probabilmente", le rispose, "per ricordarmi di andare dal medico, perché, in effetti, quando la faccio un pochino mi brucia".

            Non era vero ma non sapeva cosa avrebbe potuto risponderle. Certo non che era una questione d'ispirazione.



6. MARIO E IL TEMPO PERSO

 

            Come tutti anche Mario perdeva ogni tanto qualcosa: l'ombrello, il berretto, gli occhiali.

            A volte lasciava perdere il perduto, altre volte si recava all'Ufficio Oggetti Smarriti e chiedeva se qualcuno avesse riportato il perduto suo. Naturalmente se l'oggetto era inanimato perché era inutile cercare amici o parenti perduti. Aveva imparato presto che quando si perde un essere umano non c'è modo di ritrovarlo.

            Ma un'altra cosa Mario non era mai riuscito a ritrovare: il tempo perso. L'unica volta che aveva chiesto all'Ufficio Oggetti Smarriti se qualcuno avesse trovato e riportato il suo tempo, si erano messi a ridere. Gli avevano risposto che un sacco di gente perdeva il tempo, anche a loro qualche volta capitava, ma chi lo trovava se lo teneva e lo aggiungeva al suo. Il tempo era sempre uguale e non era possibile indicare come fosse fatto, quale colore avesse, quanto fosse grande quello perso. Insomma non si poteva riconoscere. 

            Una volta chiese a un amico cercatore di tartufi: «Ho portato la Cesira nel bosco della Porcinaia, e devo averci perso il tempo Tu che stai sempre in giro a cercare tartufi, non l'hai mica visto, per caso?»

            «Il tempo l'ho visto», gli aveva risposto l'amico, «ma che ne so se era quello che hai perso tu. Era uguale identico al mio e l'ho preso. Tartufi non ne ho trovati, ma almeno non ho perso tutto il tempo. Ho visto anche la Cesira, insieme a Beppe della Buca. Il buffo è che stamani ho rivisto il Beppe mentre frugava tra i cespugli. Mi sa che ha perso il tempo anche lui, magari proprio andando in giro con la Cesira...»

            Un sapientone disse a Mario che un francese, un certo Proust, aveva scritto una guida in sette volumi su come cercare il tempo perduto, ma per quanto avesse cercato non doveva essere riuscito a trovarlo perché morì. Forse ne aveva consumato troppo per scrivere la sua guida ed era rimasto senza prima di accorgersene.

            Perdere il tempo è facile ma parecchio irritante, perché nessuno sa quanto ne ha disponibile. Ogni tanto Mario leggeva nella cronaca dei giornali qualche notizia sul tempo perduto: «Perde il tempo che gli era rimasto e muore in anticipo», «Vive il doppio ma nessuno sa dove abbia trovato il tempo», «Colmo della sfortuna: muore per aver rubato il tempo proprio a uno che aveva deciso di suicidarsi».

            Molti, infatti, avevano imparato da tempo a rubare il tempo. La voglia di rubarlo - Mario ne era sicuro - gliel'avevano fatta venire quegli stupidi ottimisti secondo i quali il tempo è danaro.

            Ecco perché accade talvolta che qualcuno ti telefoni e parli parli in modo da distrarti, poi ti saluta scusandosi addirittura se ti ha fatto perdere tempo e tu ti accorgi che il tempo non ce lo hai più. Te lo ha rubato e nascosto da qualche parte. Infatti non lo ritrovi mai, devi fare con quello che ti resta. E magari tu muori prima e lui campa dopo essersi preso il tempo tuo.

            Quando arrivava a questo punto delle sue riflessioni Mario pensava: «E che devo essere più scemo degli altri?» e telefonava a qualcuno per distrarlo e rubargli un po' di tempo, senza che se ne accorgesse.

            Poi però non sapeva come acchiapparlo, né dove metterlo se lo avesse acchiappato. Non sapeva neppure dove stesse il suo e per venirne a capo ci perdeva tutto il tempo che aveva rubato. E forse anche un poco di più.




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