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Renzo Butazzi
RIPROPOSTE

LE DISMISSIONI:
UN PROBLEMA D'ECOLOGIA LINGUISTICA


    Sul terreno dell'attività linguistica dobbiamo risolvere un problema ecologico non più eludibile: riconvertire i molti impianti per la produzione di significati che sono stati in parte o totalmente dismessi. È impellente deciderne l'uso prima che si deteriorino irrimediabilmente, deturpando l'ambiente ed aumentando l'inquinamento.
    Un esempio tra i più illuminanti è la completa dismissione di Abbandonare. L'impianto funzionava egregiamente da tempo, producendo una gamma di prodotti molto efficienti che ricavavano il loro nome dalla fabbrica stessa: Abbandonato, Abbandonare, Abbandonando, Abbandono, ecc. Dal punto di vista ambientale le conseguenze di questa dismissione sono evidenti: i prodotti della linea Abbandonare, tutti di un certo prestigio, sono stati sostituiti da quelli della linea Dismettere, che danno agli arredi linguistici dell'utenza uno stile dimesso, completamente privo di quel pathos e di quella classe che l'uso dei vecchi prodotti garantiva. Basta pensare a come si dequalifica la suggestiva frase «Ti prego, non abbandonarmi» mutandone l'arredamento in un «Ti prego, non dismettermi».
    Il fenomeno delle dismissioni linguistiche è grave, non soltanto dal punto di vista ambientale, ma anche per le conseguenze sull'occupazione e sulla gamma di prodotti offerti al mercato.
    Prendere a Spintoni è stato dismesso e sostituito da Spintonare. Dei tre impianti che costituivano il complesso, due sono stati smantellati, concentrando la produzione del significato nell'impianto rimasto, leggermente ingrandito ma automatizzato. La ristrutturazione ha determinato una diminuzione di oltre il 41 per cento nell'occupazione, passata da diciassette a dieci unità. Avviare, Cominciare, Principiare, Iniziare, sono stati dismessi e sostituiti tutti da Scattare, con una riduzione nell'occupazione di enormi proporzioni e una corrispondente contrazione nella produzione. Da una vasta gamma di articoli che potevano soddisfare le molteplici esigenze della domanda, siamo passati ad una sola linea di manufatti: quella assicurata dal nuovo impianto Scattare. Da essa escono articoli tra loro quasi identici, tutti di rozza e militaresca fattura, assai difficili da inserire con armonia in ambienti linguistici che si volessero arredare a misura d'uomo.
    Qualcosa di analogo si può dire per Eludere, Dimenticare, Ignorare, Non Mantenere, Non Rispettare, piccole imprese artigianali per prodotti sia di classe, sia alla portata di tutti, dismesse e sostituite da Disattendere. Si tratta di un impianto di grandi dimensioni ma completamente basato su tecnologia importata, la cui produzione è indifferenziata e di modesta qualità.
    Mettere in Evidenza, uno dei complessi la cui produzione era stata fino ad ieri ampiamente utilizzata come alternativa a quella di Sottolineare, Mettere in Risalto, in Luce, A Fuoco, - ogni qual volta gli utenti dovevano arredare ambienti burocratici e formalistici - è stato in gran parte dismesso. È rimasto in attività soltanto l'impianto a destra di chi guarda, cui è stato trasferito tutto il carico di lavoro. Ne è conseguita una più che evidente contrazione nel numero di addetti e nella gamma di manufatti, in pratica ridotta alla sola linea di Evidenziare.
    Fenomeno esattamente opposto, dovuto forse a miopi interessi locali, si è verificato nell'area occupata dall'impianto Chiarire. Una vasta zona, che taluni volevano destinare a pausa pubblica, è stata occupata da un inutile allargamento dell'impianto. Chiarire è stato trasformato e leggermente allungato in Chiarezza, ma anziché aumentare la produzione grazie alle maggiori dimensioni, l'impianto si è rivelato pochissimo efficiente. Tanto che è stato necessario affiancargli un generatore della famiglia Fare; esso ha il compito di erogare la maggior quantità di energia assorbita da Chiarezza per raggiungere la stessa produzione di Chiarire. Tutti conosciamo l'infinita utilità dei generatori di tipo Fare, ampiamente utilizzati persino nei modelli ridotti Fò e Fà. Tuttavia, inserito nella vecchia area di Chiarire, costituisce una costruzione ridondante che deturpa ulteriormente la zona servita.
    Come utilizzare dunque le aree di questi impianti dismessi? Come impedire che tra vocali e consonanti, al riparo di qualche preposizione, si annidino progressivamente virgole ed apostrofi o nascano e si sviluppino suffissi e prefissi dietro i quali si svolgano ignobili commerci? Come evitare che lentamente gl'impianti si sgretolino e crollino sotto l'azione quotidiana dei punti interrogativi e di sospensione? Ecco qualche riconversione possibile tra quelle individuate dalla Commissione per la Riconversione dei Lemmi (CRL). Utilizzando alcune parti degli impianti di Eludere ed Abbandonare si potrebbe avviare una produzione di Elubandone di cui si sente grandemente la mancanza soprattutto nel linguaggio politico. Questo è infatti giunto ad esaurire tutte le possibilità dei lemmi disponibili, finendo con l'arredare ambienti linguistici sempre più monotoni, talora addirittura scomodi e di difficile fruizione. Chi di noi, obbligato ad aggirarsi dentro qualche discorso politico per trovare l'uscita o dovendo, per esigenze di lavoro, capire l'uso delle apparecchiature in esso installate, non si è trovato a disagio?
    Siamo certi che una linea di prodotti elubandonici arricchirebbe di nuovi accessori il linguaggio politico, dandogli chiarezza, luminosità e gradevolezza. Ricordate per quanto tempo ci hanno lasciato perplessi le «convergenze parallele»? Pensate quanto più gradevole e fruibile sarebbe stato l'ambiente se avessimo potuto rinnovarlo installandoci, invece, delle «convergenze elubandoniche». E il «compromesso storico» non avrebbe potuto essere mutato, con un piccolo sforzo di fantasia, in «elubandonismo fra contrari»? Sicuramente ne avrebbe guadagnato in comprensione e credibilità. D'altra parte, sembra che lo stesso segretario del partito di maggioranza abbia più volte confidato che qualora non si elubandonino le divergenze che ancora non convergono, la maggioranza sarà obbligata a divergere elubandonando.
    In molti dei suoi scritti il sociologo Alberto De' Cipressi ha ormai rilevato il profilarsi di una vera e propria cultura dell'elubandone. Essa sembra aver acquisito pieno diritto di cittadinanza nell'ampia gamma delle culture attuali, inserendosi tra la cultura dell'edonismo e quella del fagiolo. La produzione di elubandone non sarebbe dunque un inutile spreco di risorse ma risponderebbe ad una reale esigenza della nostra società; inoltre rimetterebbe in funzione impianti nei quali potrebbe lavorare un certo numero di vocali e consonanti.
    La ricerca effettuata dalla CRL ha constatato anche la possibilità di riconvertire i componenti iniziali di Prendere A Spintoni e Mettere in Evidenza. Con pochi adattamenti, smontandoli dai complessi in cui hanno funzionato fino a ieri e assemblandoli in semplice sequenzialità, si potrebbe facilmente ottenere la produzione di Pasmie.
    Allo stato dell'arte questa parola di sintesi non si presenta molto utile e non sembra avere significati comprensibili. Tuttavia occupa poco spazio e in alcuni casi potrebbe essere impiegata con vantaggio al posto di lunghi discorsi. In Parlamento l'impiego di Pasmie consentirebbe di abbreviare notevolmente le sedute: basta pensare che con tre sole parole «Onorevoli colleghi, pasmie» si potrebbe essere incomprensibili come un discorso politico di tremila o trentamila parole. L'impianto verbale potrebbe esser ulteriormente ridotto dando per sottintesi i destinatari: il deputato cui spetta la parola potrebbe alzarsi, dire «pasmie» e poi sedersi. Coloro che non fossero d'accordo con lui potrebbero replicare pronunciando la parola «eimsap» che è l'esatto contrario. Il significato dei dibattiti non ne verrebbe minimamente alterato e tutto sarebbe estremamente più semplice, dai resoconti giornalistici alla consultazione degli atti parlamentari. L'esemplificazione potrebbe proseguire ma riteniamo sufficiente quanto detto per sottolineare costruttivamente la gravità del problema. Ci auguriamo che l'argomento, anche se temporaneamente dismesso, non venga disatteso ma che prosegua uno sforzo comune teso a fare chiarezza.

Il Cavallo di Troia, 11, autunno 1989, pp. 46-53.


L'ABBAZZILICA DI PITOSFORI, MONUMENTO ROMANICO

    L'abbazzilica romanica di Pitosfori è l'unica abbazia basilischica rimasta pressoché integra fino ai giorni loro. Percorrendo l'involuta che scoscende scosciata lungo il fianco della collina di Monte Pitos, spicca fin da vicinissimo il campanillo invertito a tripla bifora sottratta.
    Sulla facciata ecclesiale, in liquirizi bianchi e neri di stile tigresco, rintocca il timpano smandrappato alla buranense, il cui occhio centrale non batte ciglio. La navata principale, che s'all'unghia in tutta la sua vertiginosa larghezza tra le monofore trombate, è preziosamente labirintata dai cenotafi catafratti dei duchi di Pitosforo.
    A destra la magnifica cappella Colestoni, che si proietta e introietta umbratile e completamente prepuziata nel tipico stile a zigozago degli zigozaghi benedettini. La sacrestia nuova, precedente alla sacrestia vecchia ma di questa successiva, offre lo spettacolo inconsulto della grande raccolta di costipazioni risciolte e rilegate in oro et laboro.
    Il fonte battesimale, in alabastro volatile evaporato nel Cinquecento, spicca per la sua assenza e invita il visitatore a meditare sul nulla: Super nihil meditabit, com'è scritto sulla lapide mancante da sempre.
    Ai Pernovecchi, che cadono più di sovente nella quinta settimana d'ottobre, vi si celebra il rito del VoI Santo. Al canto delle giaculatorie iugulari i pellegrini salgono sul nulla per la meditazione e si lasciano poi cadere nel grande Cenotafio della Barcarola, attualmente in corso di svuotatura.

Il semplice. Almanacco delle prose, 4, Anno 1996, p. 175.

    A proposito dell’Abbazzilica di Pitosfori, in un saggio dedicato ai “matti” in letteratura, Massimo Schilirò, trattando dell’esperienza della rivista “Il Semplice”, sottotitolata “Almanacco delle prose”, di cui uscirono sei numeri tra l’estate 1995 e la primavera 1997, curati da un gruppo di scrittori fra cui Gianni Celati e Ermanno Cavazzoni, scrive: “C’è posto anche per il nostro tema architettonico, nel farneticante rigoglio linguistico della descrizione dell’Abbazzilica di Pitosfori, monumento romanico”, omettendo inspiegabilmente l’autore del pezzo (vi veda Massimo Schilirò, Andar per matti, in Atlante della letteratura italiana, a cura di Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà, III. Dal Romanticismo a oggi, a cura di Domenico Scarpa, Einaudi, Torino, 2012, pp. 301-308).


LE VOCI

    Correva voce che su X corressero delle voci irriferibili. A prima vista l'affermazione era incontestabile, in quanto si poteva dedurne che su X corressero almeno due voci certe: una era appunto la voce affermante che delle voci correvano su di lui e che per comodità di ragionamento chiameremo voce madre, l'altra che le voci in corsa su di lui fossero irriferibili.
    Qui, però, si presentavano due obiezioni: questa seconda voce, a rigor di termini, era piuttosto una voce sulle voci che non una voce su X. Inoltre essa poneva un interrogativo che non poteva essere eluso: se le altre voci (dalla terza compresa in poi) erano irriferibili - e di fatto non si conosceva alcuno che le avesse mai riferite - come potevano aversi le voci stesse? Una voce che non comunichi alcun fatto, alcun pensiero, alcun giudizio, una voce che non riferisca almeno l'immagine di un oggetto materiale o astratto, che non dica almeno "perbacco", "pera", "sogno", è soltanto un suono. Sottoposto ad analisi corretta, il fenomeno venne dunque riformulato e comunicato nel modo seguente: corre voce che su X corrano una voce (la voce "corre voce" o voce madre) e dei suoni.
    Se consideriamo tutte le combinazioni possibili d'intensità, tono, modulazione e durata, la gamma dei suoni potenziali è sbalorditivamente alta. Alcuni di questi sono gradevoli ma, altri possono essere insopportabili, paurosi, ossessionanti.
    Purtroppo la formulazione del fenomeno, non sappiamo se per discrezione o incapacità deduttiva teorica, non aveva chiarito quali suoni corressero su X e non ne indicava la benché minima caratteristica. Era però facile immaginare che se i suoni fossero stati gradevoli, nessuno avrebbe fatto correre la voce che su di lui correvano dei suoni. Dunque non potevano che essere sgradevoli.
    Pertanto, quando gli amici e i conoscenti di X seppero che le voci correnti su di lui erano in realtà suoni, cominciarono a temere di venirsi a trovare d'improvviso in situazioni, che avrebbero sottoposto il loro udito e il loro cuore a prove rischiose, a soprassalti e sofferenze psichiche e fisiche che era meglio evitare.
    Intorno a X venne creandosi il vuoto, con modalità che non staremo a descrivere in quanto i vari processi dell'isolamento sono stati diffusamente trattati in letteratura e in sociologia. Tale isolamento di per sé non sarebbe stato gravissimo se X non fosse venuto a conoscerne la causa. Notando che amici e colleghi sembravano sfuggirlo, X aveva chiesto a qualcuno se per caso non stesse circolando su di lui la voce che portava iella. È risaputo, infatti, che in ambiente intellettuale o pseudointellettuale questa voce costituisce una delle cause più frequenti di isolamento. L'amico, a fin di bene, gli aveva risposto che nessuno lo considerava un iettatore ma che correva voce che su di lui corressero dei suoni. E amici e conoscenti, non sapendo di quali suoni si trattasse, non avevano il coraggio di rischiarne la sperimentazione.
    La notizia turbò oltremodo X, già di carattere ansioso e incline alla depressione. Nell'attesa e nel timore di udire d'improvviso qualche suono intollerabile, cominciò a sussultare ad ogni minimo rumore, a portare sempre più spesso le mani a chiudere le orecchie, ancorché vi avesse installato dei tamponi di cera. Non riusciva a prendere sonno nel timore di essere svegliato da suoni spaventosi, si guardava d'intorno volgendo la testa a scatti improvvisi nella speranza di sorprendere la fonte misteriosa di qualche suono atroce che stesse per correre su di lui.
    Il lavoro ne risentì, così come la salute e l'aspetto fisico, divenne emaciato in volto, con gli abiti cascanti e spiegazzati. Portava un casco da motociclista che non toglieva mai e che aveva completamente imbottito per aumentarne l'insonorizzazione.
    In non molto tempo il suo comportamento divenne così anormale che cominciò a correre su di lui una vera seconda voce: che fosse divenuto pazzo.

Il semplice. Almanacco delle prose, 6, Anno 1997, pp. 66-69.

Una piccola nota su questi due testi apparsi su Il semplice. Curiosando tra le riviste di una libreria Feltrinelli, Renzo Butazzi scopre il primo numero dell'Almanacco del Semplice, scrive a Michelina Borsari e manda i testi che qui si ripubblicano. Di seguito la lettera scrittagli, con una grafia quasi walseriana, da Ermanno Cavazzoni, uno dei curatori de Il semplice:





VISIONI: UNA FARNETICAZIONE

    La prima volta che la vidi non mi resi conto che era la prima volta che la vedevo. In effetti, una volta può essere classificata la prima quando altre ne seguono, altrimenti sarebbe d'obbligo chiamarla «unica». Ma, di contro, prima di poter affermare senza tema di smentite future che si tratta della «unica volta» è necessario che sia avvenuto almeno uno dei tre eventi che indico: 1) il «vedente» viene informato che l'oggetto della visione è defunto, è stato inumato e, allo stato, sono esclusi motivi che possano portare alla riesumazione della salma; 2) il «vedente» perde la vista, trasformandosi in non-vedente, prima che la visione si ripeta; 3) il «vedente» defunge di persona, passando allo «status» di non-vivente, che implica il sottostato di non-vedente. In quest'ultimo caso, comunque, il defunto non è più in grado di stabilire che la prima volta sarebbe stata, in realtà, l'unica volta; incapacità che, per fortuna, non lo turba minimamente.
    Pertanto - escludendo i tre casi su indicati - ogni volta che si vede una Lei (o anche un Lui) mai visti prima, questa avrebbe diritto ad essere considerata e definita «prima volta». Ma, di contro, non è possibile definirla davvero «prima volta» finché altre non ne siano seguite.
    Fu alla quarta volta che da un semplice calcolo mi sentii autorizzato a dedurre che avevo già visto costei altre tre volte e che dunque una di queste, e precisamente la prima, era classificabile come «prima volta». D'altronde il giorno in cui avevo visto una Lei che ritenevo di aver poi visto successivamente altre tre volte, era stato un giorno come tutti gli altri, nel corso del quale avevo trascorso almeno un paio d'ore in giro per la città vedendo, dunque, parecchia gente, in combinazione singola, doppia, in gruppo, a sessi distinti o mischiati. In sostanza, qualcuna avevo sicuramente visto e - in base al patrimonio d'informazioni che avevo disponibile al momento - non c'era assolutamente ragione logica per la quale avessi dovuto vedere qualcuna che non era Lei. Dirò di più: ritenendo io di averla vista, la probabilità che quella lei che avevo visto fosse quella Lei che vedevo per la prima volta, superava sicuramente, a rigor di logica, la probabilità che avessi visto un'altra lei.
    Certamente sarebbe stato ancor meglio - e la statistica mi avrebbe confortato con forza maggiore - se avessi atteso almeno dieci o quindici visioni di colei, prima di definirne una come prima volta, ma vi confesso che per una qual giovanile impazienza (si trattava di venti anni fa), decisi che potevo avventurare la mia deduzione già alla quarta volta.
    A questo punto il lettore più superficiale potrebbe chiedermi come mai non effettuai tale calcolo alla seconda o alla terza volta. In effetti mi prospettai l'ipotesi di averla vista una prima volta già alla seconda e alla terza, ma ritenni più serio avere a disposizione una casistica più nutrita prima di classificare l'evento. La mia mente spiccatamente speculativa e dubbiosa mi prospettava, infatti, anche l'ipotesi che, in occasione di un eventuale evento conoscitivo e rivelatorio, ella potesse negare, suffragando con prove, di essersi mai trovata nella condizione di poter essere stata vista da me. La logica sulla quale si basava la convinzione che la lei vista la prima volta fosse stata la Lei che ritenevo di aver visto le volte successive, era ipotetica, basata, come ho detto, sulle informazioni in mio possesso al momento dell'ipotesi e non sempre la logica ipotetica viene confermata da quella riconoscibile nei fatti successivi pertinenti.
    Nel deprecabile caso di una negazione documentata, avrei dovuto prospettarmi due ipotesi diverse, la seconda delle quali era a sua volta suddivisibile in tre sotto-ipotesi:
    A) la lei che avevo visto la seconda, terza e quarta volta non era quella che ritenevo di aver visto la prima volta, bensì un'altra lei che rimaneva comunque costante;
    B) la Lei che ritenevo di aver visto le volte successive alla prima non era costante ma variabile; si ripeteva, cioè, come era accaduto per la prima lei, il contrasto tra la logica ipotetica e la logica dei fatti. La variazione poteva andare da uno a tre, nel senso che dopo la prima lei, che non era quella Lei che ritenevo di aver visto, (B1) la seconda lei che ritenevo di aver visto (cioè la prima della serie che per comodità chiamo variabile), poteva non essere Lei ma la seconda e la terza potevano esserlo; oppure (B2) non lo era neppure la seconda lei, ma (B3) solo la terza lei era la vera Lei che ritenevo di aver visto; oppure anche questa avrebbe potuto dimostrarmi che non l'avevo mai vista e dunque (B4) che avevo visto una lei diversa da ogni Lei che l'aveva preceduta. In ogni caso si sarebbe ripresentata la necessità di aspettare un numero di visioni successive variabile da due a tre per arrivare a quelle quattro visioni - beninteso della medesima Lei - che ritenevo il numero minimo prima di potermi avventurare nell'affermazione «la prima volta che l'ho vista».
    A voler essere pignoli - il che non è nella mia natura - avrei anche dovuto prendere in considerazione la suddivisione dell'ipotesi B in altre sotto-ipotesi, che potrei chiamare «d'alternanza», in cui la lei vista la seconda volta era proprio quella che ritenevo di aver visto, ma colei che poi avevo visto la terza volta, non era la medesima della seconda volta, la quale medesima Lei tornava ad essere quella vista la quarta volta o viceversa. Ciò avrebbe reso ancor più complicato il raggiungimento delle quattro visioni della medesima Lei come numero di sicurezza.
    Con l'audacia irriflessiva ma spesso fortunata dei giovani, decisi di ignorare questi rischi, ma, piuttosto, di riflettere sul comportamento che avrei dovuto seguire alla quinta visione, quella nel corso della quale avevo deciso di rivolgerle la parola. Questa non avrebbe potuto che verbalizzarsi nella frase classica in due modalità possibili: «la prima volta che La vidi», oppure «la prima volta che ti vidi». In una persona verbale o nell'altra tale frase è foriera di ulteriori sviluppi che io auspicavo fossero positivi.
    La modalità informativa in terza persona era bi-funzionale: potevo usarla sia per comunicare a terzi la mia visione sia per comunicarla a Lei medesima. Questa seconda possibilità presupponeva, evidentemente, la realizzazione di un evento purchessia che mi avesse portato a conoscerla; evento che avrebbe potuto verificarsi alla visione n, con n variante da 5 a + (più) finito (non infinito a causa della nostra mortalità). La seconda modalità informativa sarebbe stata utilizzabile solo se tra me e lei si fosse contemporaneamente o di poi verificato un evento subordinato, o sub-evento, che mi avesse dato il diritto di usare la seconda persona singolare. Era comunque altamente improbabile che un sub-evento del genere potesse accadere ancor prima che avessi avuto la possibilità di dirle «la prima volta che La vidi».
    Questa improbabilità prospettava un problema formale che rischiava di portare a un'incomprensione sostanziale. Qualora, al momento della conoscenza, le avessi detto «la prima volta che la vidi», ella avrebbe avuto tutte le ragioni per chiedermi «chi?», in quanto che la pronuncia di una lettera maiuscola, anche se trattasi di maiuscola di rispetto, è identica alla pronuncia della medesima lettera in foggia minuscola. Pertanto, alla mia obbligata risposta - «Lei» - l'incomprensione sarebbe andata avanti lungo la progressione: lei-chi?; lei-Lei; lei-lei-chi?.
    L'unico modo di bloccare questo rimbalzo in-esauriente sarebbe stato quello di ricorrere subito al tu o di appuntare uno dei miei due diti indici (o entrambi) contro il busto o verso il volto di Lei. Un segnale di un codice gestuale mirante a farle capire senz'ombra di dubbio che il lei cui mi riferivo non era un lei esterno a Lei ma un lei ad ella sovrapposto fino a combaciare con Lei medesima. Se, come era più probabile e come auspicavo, Lei avesse ammesso la possibilità di essere stata vista da me la prima volta che ritenevo di averla vista, avrei dovuto darle elenco e dimostrazione delle visioni realizzate nelle volte successive? Certamente sì, se volevo evitare che potesse nascere una discussione sulla verità stretta della mia affermazione. Sarebbe stato infatti nocivo per l'avvio di un buon rapporto tra noi, ogni suo eventuale dubbio sulla reale posizione della prima volta nell'ordine delle volte. In pratica lei avrebbe potuto ammettere che sì, quella volta che io chiamavo la prima era possibile che l'avessi vista, ma avrebbe anche potuto obiettare che non avevo alcuna prova per parlare di quella come prima volta. Un dubbio del genere, con la discussione che ne sarebbe seguita, avrebbe del tutto annullato il potenziale sentimentale che la frase «la prima volta che La/ti vidi» possiede. Dovevo dunque essere pronto a documentare perché quella era la prima volta, comunicandole anche tutti i dati necessari a documentare le volte successive, salvo, ovviamente, l'ultima che era quella in cui stavamo parlando e che dunque era in piena evidenza.
    Purtroppo sono passati diciotto anni dalla quarta volta in cui la vidi, ma non l'ho più vista. Essendo comunque uomo ormai maturo e prudente, da alcuni anni non esco senza avere con me un taccuino nel quale, a suo tempo, trascrissi i dati necessari a classificare la prima volta come prima e le successive come seconda, terza e quarta. La memoria, infatti, mi si è indebolita e non vorrei mi accadesse di rivederla per la quinta volta e perdere l'occasione di conoscerla perché non ricordo con esattezza quale è stata la successione delle visioni autentiche e le confondo.

Nuovi Confini, 11, aprile 2002, pp. 72-75.



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