pagina del sito di Tèchne di Paolo Albani

Enzo Marzo
STORIE INVENTATE


    È naturale che una ricerca su qualche poeta perdutosi nel tempo e nello spazio non possa essere attuata senza un intervento e un finanziamento di qualche ente preposto alla diffusione della cultura. Le esigenze intellettuali di Butazzi sono state accolte e propugnate dalla “Società Parapoetica Italiana”, ricorrendo al Ministero per il finanziamento della stessa ricerca e quindi facendo giustizia dell’“immeritato oblio” di cui erano stati vittime sia Torquato che Titina Gazzilloro.
    Dei due fratelli il primo si era dedicato a una poesia “intimista e introversa”, la seconda invece aveva praticato la “poesia applicata” fino ad evolvere nel “Pianto nazionale”: poema con alterna fortuna.
    Il ricercatore quindi, nella prima parte del suo volume, indaga la figura, la personalità e la poesia di Torquato; nella seconda parte invece si sofferma sul valore poetico, nonché economico, delle composizioni leggere e di “poesia di commozione” della Titina.
    Ovviamente si parte dalle prime esperienze umane dei due.
    Torquato è un bambino normale che, durante la sua fanciullezza, combina qualche marachella che poi può essere causa di punizioni paterne. Questi episodi comunque formano il carattere e la poetica del giovine tanto da sentirsi in obbligo verso le furie del padre per aver distrutto alcuni modelli paterni fatti con «le cose più varie, dai cadaveri di mosca ai tappi, dai fiammiferi ai cubetti di zucchero, dai gusci di lumaca alle saponette usate». Egli deve alla sua sensibilità il componimento poetico che legge al padre, ormai ridotto a quasi larva umana per le impertinenze compiute da Torquato ai danni dei suoi modelli, in particolare a quelli realizzati con le noccioline. Egli si sente in dovere di chiedere perdono al padre e, in una sua lirica, premiata peraltro al concorso nazionale scolastico intitolato “Errare Juvenilis Est”, esprime tutta la sua angoscia e la sua intima sofferenza per gli atteggiamenti fin qui avuti.

Fanciullo scriteriato e certo ingordo,
ancor me ne sconvolgo nel ricordo,
da quelle noccioline fui tentato:
m’indussero a mancare e ho mancato.
Oh, come ancor rammento
il peso forte e giusto del vostro piè robusto,
l’angoscia di mammina,
il riso di Titina
nel vasto appartamento.
Deh, padre mio v’imploro:
vogliate perdonare il figlio scriteriato
che contro voi ha mancato.
Potrò mai riparare
oggi che son pentito?
Basta muoviate un dito
ed io l’avrò capito.

    In questa lirica giovanile vi sono già enucleati tutti i caratteri della poetica torquatiana: caratteri che gli faranno meritare il titolo di “Poeta Civico e Didattico (PoCiDi)”. Non tralascia di ricordare la “giusta” reprimenda del padre e quindi le sonore e alquanto dure botte a cui andò incontro, la preoccupazione angosciata della madre e la perfida risatina della sorella.
    Resterà sempre, anche quando Torquato sarà scomparso in Cina, la divergenza con la sorella. Anzi questa tenterà sempre di superare nelle composizioni poetiche l’arte espressiva del fratello. L’espressione “il riso di Titina” è emblematica per la profonda forza raffigurativa di quella che sarà poi sempre la loro vita.
    Ovviamente la mancanza di tatto psicologico, proprio per questa poesia, porta il padre a essere vittima di un raptus omicida nei confronti del figlio senza giungere alla fatale conclusione. È questa però una buona occasione per la completa guarigione del genitore.
    Se fin dalla prima fanciullezza ha sentito nel suo animo la forza espressiva delle vicende normali che fanno la vita di un ragazzino, entrando nell’adolescenza non può che vivere la realtà della sua età. Naturalmente nell’adolescenza è l’esperienza e i bisogni sessuali che lo attraggono, senza però riuscire a captarne i segnali più profondi. Percepisce che la madre “Ape regina” (come egli stesso la chiama nel suo componimento) scorrazza in qua e in là nel bosco mentre un colonnello dei dragoni si attarda “senza pantaloni” sotto un ombrello. Pensa che l’Alvara (una sana contadina) soffi in bocca a Lodovico, sotto il fico, ma poi scoprirà che i dragoni avevano fama di grandi amatori e che l’Alvara non soffiava affatto in bocca a Lodovico. Anzi sarà proprio l’Alvara a rivelargli “i segreti del sesso”.
    Ovviamente il giovane non solo scopre le meraviglie e i segreti dolci del sesso, ma si rende conto che deve star lontano dall’Alvara quando invece intorno vi è Lodovico. Si maturano così quelle che saranno le linee conduttrici di tutta la poetica gazzilloriana e Torquato si rivolge a se stesso per riscoprire la validità dell’essere chiuso in sé.
    Introspezione e psicologismo diventano le linee conduttrici del suo far poesia e allo stesso tempo le guide madri del carattere solipsista del poeta. Queste notazioni sono caratteristiche anche dello stesso indagatore, anzi siamo propensi a credere che vi sia una certa affinità tra la sensibilità solitaria di Torquato e il pessimismo intrinseco dell’“esumatore letterario”.
    È un poeta Torquato che vive la sua esperienza e, insieme all’amore, vede nei generi alimentari un punto di ispirazione che lo porta a profonde considerazioni.

Salta
la cavalletta di Malta
sempre più alta!
Ma cade nella panna montata
e muore affogata.

    Ovviamente una poesia dal genere ha dato adito a molte interpretazioni sia da parte degli entomologi sia da parte degli analizzatori di poesia, cioè dei critici. La discussione ha molto di simile con quanto è avvenuto con la più parte delle poesie di Montale il quale probabilmente si riferisce a possibili signore, sempre in metafora, in alcuni suoi poemi. Pensiamo ad Annette, alla Farfalla di Dinard (forse Honey, «l’angelo giunto da una città nera come il carbone»), Gerti, Dora Markus, Liuba ecc.
    Anche per Torquato il suo principale critico (il De Vermis!!) avanza l’ipotesi che la «cavalletta di Malta» metaforizzi una signora da lui corteggiata «per corrispondenza».
    L’ispirazione di Torquato comunque tocca anche le corde della naturalezza: è alla natura che egli si ispira scrivendo di Discese come di tafani. Proprio su questo argomento possiamo dire che un qualche suggerimento è stato ripreso da Salinger che fa spesso chiedere al Giovane Holden («Mi saprebbe dire per caso dove vanno le anitre quando il lago gela? Lo sa per caso? ... Che per caso sa dove vanno d’inverno?» E come Holden non riceve risposte valide a questo suo struggente interrogativo, allo stesso modo il Gazzilloro vuol far poesia, anche se preferisce cantare la validità delle leggi di natura. Si sofferma quindi sulla legge che presuppone, grazie alla gravità della terra, la discesa e non la salita.
    Una legge di natura che mi ha colpito è che, malgrado si sia sempre parlato e si parli molto di ascesa, di elevazione, di aspirazioni ad innalzarsi, tolti pochi esempi quali l’alpinismo, l’aerostato e la beatificazione, quest’ultima sempre opinabile, tutto in realtà scende. Niente resta su in eterno.
    Quanto scrive Torquato nel suo saggio Riflessioni e Rimbalzi è quanto lo stesso autore (Butazzi) pensa sulla discesa e sull’elevazione, nonché sulla beatificazione; ma al tempo stesso è la rivelazione della nuova tematica poetica che di là a poco sarà la struttura portante della poesia di Gazzilloro. Il silenzio delle cose.
    Passa prima attraverso l’interrogazione di insetti noiosi e anche antipatici per gli uomini, ma non avendo ottenuto risposte si avvia a pensare che tutte le cose e tutti gli oggetti amino non rispondere, in pratica non vogliano conversare. E il silenzio è protagonista della poesia Ira dove si presenta concretamente al lettore il tema dell’incomunicabilità, infatti nessuno risponde al gorilla.
    Torquato si apre così alla riflessione filosofica e poetica del valore del silenzio e dell’impossibilità di comunicare con le cose che non parlano. Prova a scoprire anche un possibile linguaggio dei fagioli addivenendo così alla conclusione che il modo di esprimersi delle cose indichi la differenza delle personalità.
    Questa acquisizione concettuale viene espressa con argomenti filosofici nel ventisettesimo Rimbalzo:

    «Perché tanto insistiamo nel parlare tra noi esseri umani e rinunciamo così facilmente a dialogare con gli oggetti, o almeno a cercare di farlo? Eppur tuttavia le cose, cioè queste entità inanimate almeno secondo la diffusa convenzione che vuole solo noi in possesso di un’anima, le cose dicevo – dai ciottoli al panettone, dai piselli alle sedie, dalle feci alle uova – sono infinitamente più numerose degli esseri umani. [...] l’essere umano non potrebbe esistere senza le cose... Toglietegliele e l’essere umano non sarà più: le cose sono per lui la vita stessa. Eppure, mentre ci preoccupiamo vivamente di quello che pensano e dicono gli esseri umani, non ci preoccupiamo affatto di cosa potrebbero pensare e dire le cose, di cosa nasconda il loro silenzio».

    E gli interrogativi di Torquato raggiungono profondità tali da divenire tema poetico. Ed è così che si apre il periodo “dei silenzi”. Silenzi che si manifestano nei componimenti poetici relativi all’uovo e alla lingua salmistrata, che però ha il difetto di essere un po' presuntuosa («sta sulle sue»). La critica e il pubblico non capiscono questa esaltazione poetica del silenzio e della solitudine, per cui il successo non arride molto a Torquato che sposta la sua riflessione all’uomo e alle parti anatomiche che lo compongono. L’ombelico assurge così a protagonista della vita e della fortuna poetica tanto da essere considerato il vero socratiano gnoti s’autòn. Si apre così una poetica introspettiva che sarà foriera di successi non di poco conto nella vita di Torquato.
    Ben presto il nostro poeta viene insignito della carica di Poeta Civico e Didattico, dopo aver esaltato l’impresa coloniale del paese. Ed è in questo periodo che si fa viva anche la Cina invitando il sommo poeta a tenere una serie di conferenze e a scrivere di bachi da seta (o filugelli, alla milanese). Insomma Torquato deve parlare e far parlare i bachi da seta. In realtà, dopo aver raggiunto una certa notorietà con la poesia sul baco da seta, la vita diviene pesante e preoccupante per Torquato così non gli resta che mangiare foglie di té di fronte ai filugelli per tentare di convincerli a parlare. Egli stesso lo comunica in una lettera prima all’Associazione Poesia e Celenterati e poi direttamente alla sua amata Clelia (che non lo ha accompagnato nel viaggio).
    Dopo di che non si hanno più contatti, si perde ogni traccia di Torquato, si sa solo che un negozio di Como ha trovato dei foulards «tessuti con il nuovissimo filo Gazzilloro, dieci volte più forte e spesso del filo di seta comune». Inizia così la vera ascesa di Titina.

    Prima di addentrarci nella seconda parte del volumetto è bene fare altre riflessioni sulla poetica di Torquato e quanto questa poetica sia la sensibilità di Butazzi metaforizzata nella personalità di Gazzilloro.
    Fermandoci per un momento a quanto Butazzi scrive di Torquato vengono fuori alcuni capisaldi della filosofia diuturna dello stesso ricercatore. Intanto nasconde, dietro Torquato, una solitudine dell’essere umano che traspare qua e là ogni tanto non solo nei versi, ma anche nelle considerazioni dello stesso Gazzilloro. Il ventisettesimo Rimbalzo ne è un esempio macroscopico. Non solo ciò, ma tutto si trasfigura nella contorta e sempre solitaria personalità del poeta sia nella sua esperienza sessuale vissuta quasi da spettatore più che da protagonista che nella sua necessità di voler a tutti i costi aprire un dialogo con le cose. La personalità del poeta è fragile quanto la personalità del ricercatore e ne è prova questa

Cielo d'inverno

Alzo lo sguardo oltre le cime dei cipressi
smosse dal subdolo vento di libeccio
che le fa crosciare senza riposo,
e scopro la maschera arcigna
d'un burrascoso cielo d'inverno
che mi guarda nemica.
Nembi grigi compatti, nembi frastagliati di nero,
nembi squarciati da lividi chiarori,
nembi che si sfrangiano nei rigonfi più bassi
come se brandelli malefici
volessero soffocarci nel loro abbraccio.
È un cielo ostile che m’intimorisce,
che mi fa abbassare lo sguardo
e rifugiarmi dove non possa vederlo.

    È una poesia questa del 3 marzo del 2011, dalla quale si evince con facilità quanto fragile, timida e quasi ingenuamente fanciullesca sia la personalità del Butazzi. Ovviamente ci troviamo di fronte a un poeta che sa certamente dosare la sua capacità poetica con la volontà di polemizzare e criticare.

    Ma Butazzi non si ferma a Torquato, scopre che anche la Titina, sua sorella, è una poetessa. Una poetessa particolare che può benissimo essere avvicinata alla personalità della moglie di Sancio. Nel capitolo LII della Prima parte del Don Chisciotte, Cervantes sintetizza in poche righe la personalità di Giovanna Panza. «Alla notizia dell’arrivo di Don Chisciotte, accorse anche la moglie di Sancio, che aveva saputo del suo servizio da scudiero, e al vedere il marito, la prima cosa che gli chiese fu come stava l’asino, al che Sancio rispose che stava meglio del suo padrone».
    Come la Giovanna di Sancio è preoccupata per la sorte della sua unica ricchezza, cioè l’asino, allo stesso modo la poetessa Titina si ispirerà sempre a cose, oggetti, situazioni che possano far comodo a qualche rivenditore e da cui lei possa trarre guadagno.
    Naturalmente agli inizi la giovane poetessa riesce a trasfondere in semplici espressioni riferite alle cose di tutti i giorni una certa aria di complicità che danno un significato al doppio senso delle rime (così come aveva dimostrato con la sua teoria dei “transfert e controtransfert vocali” il dottor Amal!). La poetica di Titina finisce spesso per identificarsi con la sua stessa vita e con le sue esperienze, siano esse amorose o di vita giornaliera. In questo periodo ha una certa influenza sulla sensibilità e l’educazione di Titina, la madre.
    In pratica la Titina si trova a vivere esperienze che hanno molta similitudine con quelle rappresentazioni che l’Aretino propone nella figura della Nanna (maestra di vita nel Dialogo nel quale la Nanna insegna alla Pippa), la quale consiglia la Pippa di tendere i «lacciuoli, e piglia i merloni alla trappola come si pigliano le volpi vecchie; e quando vuoi che venghino via, non chiedere a la grossa, ma beegli il sangue a ciantellini a ciantellini...» In questo modo Titina cerca di catturare il giovane conte Bruson, che tanto aveva desiderato, ma costui non può non smettere di fumare anche nei momenti di intimità: causa questa della loro separazione avvenuta dopo senza tanto rimpianto da parte di Titina.
    Dopo simili esperienze la Titina si immerge totalmente nella “poesia applicata” o “operativa” valorizzando così il commercio che richiedeva componimenti ad hoc. Tutto ciò la porta a dedicarsi completamente a scrivere versi per qualche prodotto da immettere o già immesso sul mercato. E proprio grazie a un componimento commissionato dall’Unione Industriale per esaltare la seta, mentre è ospite in un albergo incontra quello che poi sarebbe divenuto suo marito: l’ingegnere Olinto Boldone.
    Il matrimonio con Olinto diviene la causa di un rallentamento nella produzione retribuita della Titina che però continua a scrivere ottonari, versi alessandrini, rime baciate e concatenate. Ma niente le risolve i problemi di tenuta psicologica della stessa poetessa, tanto che si trova a passare giornate intere di fronte allo specchio per analizzare e curare l’epidermide del volto. Inoltre la crisi ispirativa spesso contribuisce a rendere la Titina iperattiva nelle faccende domestiche. Tutto ciò fino a quando Olinto non la convince a rivolgersi ad uno psichiatra di fama, amico di famiglia.
    Ovviamente lo psichiatra si rende conto che la Titina ha bisogno di parlare per estrapolare il suo problema che consiste in una domanda precisa: “poesia o maternità?”. Dalla chiacchierata con lo psichiatra viene fuori come la Titina sia gelosa e, al tempo stesso, invidiosa del fratello a cui rimprovera la sua bruttezza da fanciullo, mentre ella era molto più bella e affascinante. Affascinante al punto che già a tredici anni ha avuto l’esperienza sessuale. Si lamenta poi del marito il quale è tutto preso dal suo biliardo, non ama la poesia, ma gliene chiede una per la salle à billard del circolo. Il medico non può fare a meno di ascoltarla:

evviva le palle, evviva il pallino
che delle bilie è come il bambino.
Evviva i birilli, quei pispolini
così importanti pur se piccini.
Evviva la stecca, sì lunga e soda
che basta impugnarla perché si goda.
Chi frequenta la bilia
giammai reca disdoro
a Dio, patria o famiglia.
Purché giochi, s’intende,
solo dopo il lavoro.

    Non è difficile per lo psichiatra, basandosi sulle confessione della poetessa e su i versi appena letti, estrapolare una diagnosi che riportiamo con le sue stesse parole:

    Era evidente che la poetessa sublimava nel pallino un figlio che non aveva e nella stecca quell’appendice maritale che le dava piacere ma che non le aveva ancora procurato il figlio: non a caso la sublimazione aveva preso a metafora una stecca di legno, simbolo non riproduttivo né riproducente. [...]
    La forte personalità della signora emerse anche nel contesto della relazione coniugale. O. B. – replicò chiamando il marito per nome e cognome – non la trascurava affatto, almeno quando lei gli consentiva di proseguire nell’approccio. Non avevano figli perché lei non ne voleva, sentendo di doversi dedicare completamente alla poesia [...] «Lei ha mai pensato che figlio fa rima con scompiglio, con groviglio, con sbadiglio, fa rima?»

    Insomma Titina non vuole assolutamente figli, men che mai una figlia che avrebbe fatto rima con “coniglia”. Lo psichiatra prova allora a stabilire una terapia che sin dal primo momento risulta negativa per gli effetti collaterali che si manifestano. Insomma la decisione presa consiste nell’abbandono del tetto coniugale da parte della poetessa e nella necessità di continuare la terapia nella casa dello psichiatra.
    Anche questa terapia a lungo andare si dimostra inconsistente per cui si passa ad una terapia a domicilio della paziente, tentando così di superare la causa principale della sua crisi poetica: «il senso di colpa per la maternità repressa». Ovviamente anche questa terapia, a base di minestroni puzzolenti, si dimostra non valida e quindi si passa alla terapia della pulitura di tutti i soprammobili in metallo anche di amici e non. Dopo di che finalmente la poetessa riesce a scrivere di nuovo dei versi.
    Ma in un incontro il fratello la rimprovera di tradurre «in versi banali la tua uterina capacità creativa... desisti dal poetare e figlia... Ma se non hai cuore di generare, prenditi almeno un gatto, vivaddio!»
    Queste parole sono illuminanti per Titina che ben presto si fa dare un gatto, che chiamerà “Pascià”, dal suo parrucchiere e commenta così l’accaduto nel suo Journalet Intime:
    «Peccato che debba mon “Pascià” a Torquato. È l’unico aiuto fraterno che ho ricevuto! Forse lo ha fatto per indispettirmi con un suggerimento per femmina isterica, come mi definiva quando pensava che non lo sentissi. Voleva ridicolizzare me e i miei versi».

    Praticamente da quel momento il rapporto tra i due non esiste più e mentre Torquato è convinto che «con i suoi versi ha sempre cercato d’interpretare l’anima, i sentimenti, i silenzi delle cose, di comunicare con loro. Al contrario la sorella [...] avrebbe considerato soltanto il significato materiale, l’esteriorità fisica, strumentalizzando cinicamente le cose e facendone oggetto di poesia solo a scopo di lucro». I due fratelli finiscono così per criticarsi anche pubblicamente nei salotti.
    Scomparso il fratello, ricomincia l’attività poetica della Titina, ma questa volta con un’altra più sentita ispirazione. Nasce la “poesia di commozione”, dedicandosi a poemi per defunti e per qualche lapide cimiteriale commemorativa.
    È il direttore dell’Ospedale S. Camillo Camilliano di Costa Masnaga a dare lustro (e quindi far diventare popolare) alla nuova ispirazione poetica di Titina. A causa di un’epidemia di tifo i malati non accettano di buon grado l’idea di dover morire e quindi il professore ricorre alla Titina per chiederle un componimento che permettesse di far «apparire la morte medesima ciò che in realtà è: la fine delle pene terrene».

Noi tutti giacenti in corsia
in attesa dell’agonia, cantiam, con le nostre Suore,
un grazie a nostro signore.
Grazie o Signore adorato,
che del morbo facesti strumento
per darmi sì grande contento.
Grazie o Re del Creato.
Ti son riconoscente e grato/a
giacché il duolo che mi hai donato
mi rende mondo/a d’ogni peccato.
Grazie o Signore grazie
di farmi tanto soffrire
prima di morire.

    Il professore rimane estremamente soddisfatto e, da quel momento, per la Titina si apre un nuovo periodo di soddisfazione e di esaltazione artistica.
    Il ministero vuole un canto poetico che ecciti la sensibilità degli uomini di maggior rilievo nelle istituzioni, già predisposti a commuoversi, anzi a pingere ogniqualvolta hanno da fare una commemorazione di qualsiasi evento. Dopo una lunga e documentata discussione con qualche funzionario importante e autorevole del ministero, la Titina ha l’incarico di comporre una poesia destinata a nobilitare l’immagine del fenomeno “pianto”. Nasce in questo modo la poesia “Pianto nazionale”. Riportiamo ora solo alcuni brani di questo lungo poema:

Singhiozza di frequente
l’italico eminente.
Gemono deputati,
ministri e magistrati,
e più d’un segretario di partito
ha il ciglio inumidito.
[...]
È forse codardia?
Il popol si domanda.
È malattia, vecchiezza,
è la lor debolezza che comanda?
È ipocrisia?
Giammai, suvvia!
Di tal pensiero odioso ti vergogna!
Piangon di commozione,
di sdegno, di successo,
talor di delusione.
È un pianto sano,
o popolo italiano.
È di viril passione.
Sgorga dai loro cuor
l’amor per i fratelli e la Nazione!

    Questa poesia è un successo per Titina, ma al tempo stesso l’inizio della fine. La lettura di questi versi crea uno stato d’animo partecipativo per cui in qualsiasi riunione, anche in quelle scolastiche, tutti finiscono per lacrimare. A questo punto il ministero deve ricorrere ai ripari ed elimina “Pianto nazionale” da tutte le antologie e non fa eseguire più in pubblico la lettura. Titina Gazzilloro viene considerata una iettatrice e quindi scompare dalla scena pubblica.
    Questo libro è in sé avvalorato anche da una nutrita bibliografia che rende evidente l’invenzione del tutto.

    Come Borges ne L’invenzione della poesia, crediamo che Butazzi veda realmente quel che sostiene il maestro argentino:
    «un libro è un oggetto fisico, in un mondo di oggetti fisici. È un insieme di simboli morti. Poi arriva un buon lettore e le parole – o, meglio, la poesia che sta dietro le parole, perché le parole sono semplici simboli – tornano in vita. Ed ecco la resurrezione della parola».

    Al di là comunque dell’uso della parola e della scoperta della poesia dietro la parola, Butazzi si è conformato al Borges di Finzioni dove dice: «meglio fingere che questi libri esistano già, e presentare un riassunto, un commentario [...] Più ragionevole, più inetto, più pigro io ho preferito scrivere su libri immaginari, articoli brevi».
    Il ricercatore della non esistente poesia di Torquato e di Titina, in pratica ha voluto attraverso la satira e la comica ironia presentare se stesso, ha fatto quanto i letterati inglesi fanno già da circa un secolo. «In Inghilterra lo scrittore comico ha da circa cento anni scelto la strada del nonsense, della cosa scritta che non ha senso alcuno, formata da un (apparentemente) fortuito accozzamento di associazioni le quali, suscitando una serie di immagini disparate, riescono ad un effetto talvolta fortemente umoristico» (Tomasi di Lampedusa, Letteratura inglese, vol. II, Mondadori, Milano 1996, p. 307).
    Il nonsense comunque di Butazzi non evita di rivelare la forte sensibilità umana e civile che lo contraddistingue. Come abbiamo avuto modo di vedere nella trattazione delle poesie di Torquato, lo studioso si è immerso totalmente nella solitudine del poeta scomparso e nella ricerca di un contatto con le cose. Anche nella poetica di Titina vi è l’analisi di un’umanità alla quale il critico letterario si sente legato e dalla quale non vuole sfuggire, anzi in essa si sente di vivere e soffrire.
    Ne possono essere testimonianza le seguenti due poesie, che ci avvicinano al “vero Butazzi”. Uscendo dalle atmosfere satiriche, questi versi portano in luce la profonda sensibilità del poeta verso il vivere umano. Queste due poesie non fanno parte de Il silenzio dell’uovo:

Solitudine

Briciole e macchie di vino
sulla tovaglia di carta.
Uno schizzo di sugo
sul giornale appoggiato
al quartino di vetro.
Nel piatto rimasto,
uno stuzzicadenti troncato
una crosta di “zola”,
una buccia di pera.
Ogni sera.

Volti

Incrocio nella folla
volti che non guardo.
Volti afoni, amorfi, insulsi,
belli e brutti:
volti normali
che non metto a fuoco
e che il pensiero, senza colpa, ignora.
Poi, talvolta,
incontro un volto contorto,
dallo sguardo smarrito
mentre la bocca blatera
un soliloquio senza fine.
Racconta di un sé nemico,
di un male che affiora dal profondo,
di una vita ostile.
Quello lo guardo e penso
e mi sento in colpa
senza averla.

sono poesie in cui l’autore si sente quasi in colpa di vivere una vita senza particolari storture fisiche e psicologiche. Ma non solo questo.
    Come essere moderno e civile non può non sentirsi facente parte di un corpo sociale, allo stesso modo di come ha fatto la Titina negli ultimi versi del suo “Pianto nazionale”, dove alla beffa degli uomini di potere che ipocritamente fanno finta di commuoversi per un checchessia aggiunge la beffa delle scelte modernissime che gli stessi uomini compiono e delle quali ci vogliono rendere partecipi. Risale solo al febbraio 2008 il seguente testo:

Non questo

Non questo volevamo,
quando tutto finì.
Non questo volevamo,
dopo aver visto
emeriti ingegni e maestri attempati
ballare minuetti
in onore del falso.
Non questo volevamo,
dopo aver patito
la follia sanguinaria
di potenti e giullari.
Non questa palude
di menzogne accolte,
verità negate,
coscienze sepolte.
Non questa continua
recita d’alibi,
questa pantomima di compromessi,
d’abbracci a grovigli,
d’invettive a nemici carissimi
con i quali, più tardi,
si pranza discreti.
Non questo voltare e rivoltare
gabbane,
questo commercio losco
di contenuti ignoti,
questo mercato d'onori e poteri,
d’amici e parenti.
Di voti.
Non l’ammaestramento
ossessivo che ci impartite
con frullati di parole
sempre dello stesso sapore.
Non per questo partecipammo ai riti,
aiutandovi a generare
nuove dinastie.
Non per questo
le riconoscemmo
e onorammo.
Non per essere
placati e traditi.

    Butazzi certo non va assimilato a quegli scrittori americani che dell’ironia hanno fatto il paravento della loro tristezza (pensiamo a Savage e Fante): il nostro ricercatore nasconde se stesso e la sua stessa personalità nel comico nonsense sentendosi senz’altro più vicino a quell’Oulipo (OUvroire de LIttèrature POtentielle = Officina di Letteratura Potenziale) fatto conoscere nelle nostre terre da Calvino. Proprio Calvino infatti nella nota del traduttore alla fine di Fiori blu di Queneau si trova a dire «Si tratta pur sempre di un libro che non parla d’altro che di sogni e d’interpretazione dei sogni, e dove si dichiara “Rêver et révéler, c’est a peu près le même mot”. Questa è una frase che non ho potuto tradurre; chiude una battuta di Cidrolin che contiene una grande verità tanto per la psicanalisi quanto per la letteratura: “Sta’ attento con le storie inventate. Rivelano cosa c’è sotto. Tal quale come i sogni”».

Prolusione tenuta il 6 maggio 2011 dall’Accademico degli Oscuri Enzo Marzo (il Loquace) al Teatro degli Oscuri di Torrita di Siena in occasione della presentazione de Il silenzio dell'uovo (Sagoma editore 2011) di Renzo Butazzi. Nella sua fatica Marzo è stato sostenuto dagli Accademici Mariangela Leotta (la Preziosa) e Alberto Morganti (il Narratore).



Home page   Indice Butazzi e i Gazzilloro